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Foto di Michele Lapini

Cortocircuito Don Bosco

  • Categoria dell'articolo:Bologna
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Nel baillame politico che si è scatenato intorno al Parco Don Bosco è necessario rimettere un po’ di ordine, perché l’escalation voluta e organizzata da chi comanda l’ordine pubblico ha prodotto un piano inclinato pericoloso e ingovernabile, su cui sono prontamente rotolate dichiarazioni e prese di posizione.

Partiamo dalla violenza. Che c’è stata, ed è stata fisica e reale. Anziani sdraiati per terra trascinati malamente; persone arrampicate sugli alberi gettate giù con la forza; manganellate, calci, spinte, e decine di feriti e contusi. Di tutto questo ci sono testimonianze video e fotografiche, che ritraggono protagonisti e vittime. La doppia morale per cui questi avvenimenti sono deplorevoli solo quando avvengono in casa d’altri non è accettabile.

Passiamo agli alberi. Che non sono dei totem sacri. Ma che, in tempo di crisi climatica, diventano simbolo delle paure e dei bisogni di chi, di fronte al riscaldamento globale, ha meno strumenti per mettersi al riparo. Gli alberi svolgono una funzione essenziale nei deserti di cemento e asfalto della metropoli contemporanea. Dice di averlo capito anche l’amministrazione comunale che ha nominato il botanico Stefano Mancuso nel comitato di esperti per il centro storico. Eppure, sul terrapieno del Don Bosco sono stati tagliati pure quegli alberi che l’agronomo del Comune di Bologna aveva segnato come ‘da salvare’. Uno scempio che sa di sfregio politico, e di cui nessuno ha chiesto il conto a chi ha azionato le motoseghe.

Parliamo di lavoro. Dopo le stragi nei cantieri si riempiono – giustamente – d’indignazione intere pagine dei giornali. I video di operai che azionano motoseghe a pochi centimetri dalle persone, o i poliziotti che si arrampicano sugli alberi per far cadere chi vi è salito, non hanno prodotto alcun dibattito politico. L’etica del lavoro e la sua sicurezza non possono essere sospese, e il silenzio di molte tra le sigle sindacali è assordante.

Giovedì scorso, al Parco Don Bosco, c’è stato un lasso di tempo in cui le regole più banali di salvaguardia della salute di chi era presente – e in particolare di quella delle manifestanti – non erano valide e sono state messe in secondo piano rispetto a un obiettivo politico: quello di dimostrare che un cantiere voluto da un’istituzione va avanti, costi quel che costi.  Un uso della violenza inaccettabile, che inevitabilmente diventa responsabilità politica. E che fa deflagrare le contraddizioni che si celano dietro alla gestione delle politiche climatiche: una ciclabile o un terrapieno alberato? Una scuola o un bosco?

Se è vero che decarbonizzare il tessuto urbano significa anche costruire le infrastrutture del futuro, nel dibattito politico di queste settimane è mancata una domanda fondamentale: davvero non è possibile salvaguardare le piante urbane e impedire ulteriore consumo di suolo ‘by design’, ovvero imponendo queste scelte nella fase di ideazione e progettazione delle opere? In fondo, il comitato che è sorto tra gli alberi del Don Bosco non ha mai affermato di non volere una scuola efficiente o a una pista ciclabile, ma ha sempre chiesto soluzioni progettuali capaci di salvaguardare il verde esistente. Ha provato a porre tra quelle che sono presentate come alternative– ciclabile/terrapieno alberato, scuola/bosco – una ‘e’ al posto della ‘o’ prevista dai progetti istituzionali. A queste ‘e’, finora, non sono state opposte argomentazioni di merito, ma cavilli burocratici e amministrativi legati all’avanzamento degli iter progettuali. Del resto, se ci fossero buone ragioni botaniche e climatiche per abbattere gli alberi esistenti e sostituirli con altre piante, non abbiamo dubbi sul fatto che il Comune non avrebbe perso l’occasione di farlo mettere nero su bianco da esperti come il biologo Mancuso, che ha invitato alle proprie conferenze.

Questa città ospita piste ciclabili che costringono le cicliste a girare intorno a pannelli pubblicitari di metallo, mentre chi promuove la ciclabilità non trova forme per rafforzare le infrastrutture dedicate alle due ruote all’interno di un processo che salvaguardi il patrimonio arboreo esistente? Afferma di voler essere tra le prime cento città ‘carbon-neutral’ in Europa e non sa far convivere gli alberi che già la abitano con i progetti per il proprio futuro? Celebra quella che ha chiamato ‘assemblea cittadina sul clima’ – su cui abbiamo già espresso le nostre opinioni qui – e non sa far altro che affermare a mezzo stampa che chi blocca dei cantieri per difendere le piante di un parco si assume la responsabilità di ciò che potrebbe subire, ovvero l’essere malmenato?

In questi mesi al Parco Don Bosco si è prodotto un cortocircuito che ha fatto emergere le tante linee di tensione intorno alle politiche climatiche, intrecciando dimensioni ambientali, sociali, urbanistiche, economiche. E ha dimostrato che ambiente, lavoro, sociale, urbano, non possono essere dimensioni sconnesse tra loro. La crisi climatica pretende progettualità nuove, innovative, non lineari, asimmetriche. Contrapporre una ciclabile a un albero e una scuola a un bosco è l’errore di chi guarda soltanto agli indicatori su cui ottenere dei premi e dei riconoscimenti internazionali, e dimentica che l’urbano è fatto di relazioni, metabolismi, bisogni che vanno ben oltre i render di un progetto e i fondi del PNRR.

(foto di Michele Lapini)