Sabato 17 giugno migliaia di stivali hanno sfilato per le strade di Bologna, portando il fango spalato nei territori alluvionati dell’Emilia-Romagna sotto la sede istituzionale della Regione. Una manifestazione nata nel dibattito dell’assemblea popolare dello scorso 27 maggio che, in Piazza Nettuno, aveva fatto emergere la consapevolezza collettiva che quel che è avvenuto nei territori che viviamo era una catastrofe annunciata. Perché i report sul riscaldamento globale e gli studi sulla fragilità del territorio – dovuta alla sua cementificazione – sono sui tavoli da anni, eppure sono stati sempre spinti in fondo ai cassetti, per lasciare spazio ai faldoni dedicati alle grandi opere inutili e dannose.
L’alluvione – come altre catastrofi – è un evento collettivo che, nelle settimane successive, ha innescato una straordinaria ondata di solidarietà. Migliaia di persone si sono auto-organizzate – anche attraverso PLAT-Piattaforma di Intervento Sociale – per andare a dare una mano, colmando i vuoti evidenti di un sistema che si narra come uno tra i migliori d’Europa, ma che molt* hanno denunciato assente nelle strade infangate dei Comuni romagnoli. Ma l’alluvione è stata, anche, un evento politico, capace di sgretolare anni e anni di narrazione della nostra regione attraverso il mito della ‘Motor Valley’.
(continua dopo il servizio del TGR Emilia Romagna sulla manifestazione di sabato 17 giugno)
Non più di dieci giorni fa, il presidente Stefano Bonaccini gridava a chi gli contestava le sue responsabilità che, fino a settant’anni fa, qui si moriva di fame e malaria, e che oggi l’Emilia-Romagna è una delle regioni più ricche d’Europa. Ma qual è il prezzo di questa ricchezza nominale, sicuramente raccontata nelle statistiche, ma che nasconde differenze e diseguaglianze enormi? È anche su questa contraddizione che il modello emiliano-romagnolo, che alcun* indicano come l’esempio da seguire, evidenzia limiti e ingiustizie. Da una parte, le disuguaglianze non solo non diminuiscono, ma si acutizzano, e l’alluvione – durante la quale chi ha meno ha perso tutto, mentre chi ha di più al massimo ha perso qualcosa – è stata l’ennesima occasione per evidenziare quanto lontane siano queste terre dal costruire benessere collettivo e comune. Dall’altra, le infrastrutture necessarie a generare questo ‘surplus di ricchezza’ hanno distrutto il territorio, facendo dell’Emilia-Romagna una delle regioni più cementificate d’Europa, e creando le condizioni per disastri che devastano i luoghi che viviamo, impoveriscono il territorio mettendo in ginocchio produzioni primarie come quella agricola, e costano miliardi di euro in danni.
(continua dopo la photogallery)
Portare il fango spalato nei territori alluvionati sotto la sede della Regione significa non soltanto contestare un’opera o una scelta politica, ma mettere in discussione un intero sistema, e la narrazione su cui si fonda. Significa dire che no, non vogliamo né raccontarci né vivere nella ‘Motor Valley’, perché l’ambizione di inseguire quella presunta eccellenza ha fatto delle nostre terre luoghi inquinati e fragili. Significa, anche, ripensare l’intero modello economico e sociale che fonda questa regione: cosa significa ‘ricostruire’? A chi serve realizzare un rigassificatore a Ravenna, invece che investire ogni nostro centesimo nel risparmio energetico e nelle fonti rinnovabili? E perché voler allargare non solo il Passante di Bologna, ma tutte le autostrade che attraversano la regione (con un investimento complessivo superiore ai sette miliardi di euro), se abbiamo l’urgenza di azzerare il consumo di suolo e investire sulla cura dei territori?
Si tratta, in altre parole, di porre priorità diverse: altro profitto, o la salute e la sicurezza delle popolazioni? Una crescita infinita dei consumi energetici, o un nuovo approccio all’energia pulita per tutt*? Una mobilità fondata sui mezzi privati, o una riflessione nuova sul diritto di tutt* alle connessioni e alle relazioni? Nel riconoscere l’alluvione come fatto politico, la marcia dei 10 mila stivali – e l’assemblea che l’ha convocata – hanno posto (anche) queste domande. Che non possono trovare risposte da chi ha già le mani sporche di cemento. Ed è per questo che, in tante forme, è necessario continuare ad attraversare le piazze, alla ricerca delle convergenze capaci di farci costruire altrove possibili.