È passata ormai una settimana da quel sabato in cui decine di migliaia di persone hanno attraversato in corteo il Passante di Bologna, interrompendo per mezzo pomeriggio le autostrade che convergono sulla città. Una manifestazione oltre ogni aspettativa, non soltanto per il numero di partecipanti, ma soprattutto per la capacità collettiva di provare a praticare la convergenza.
In questi giorni abbiamo guardato e riguardato le foto; riascoltato voci e cori; riassaporato l’entusiasmo che lungo il percorso di più di 7 chilometri contaminava la città. Ma, naturalmente, non abbiamo attraversato collettivamente mezza Bologna per toglierci una pur meritata soddisfazione, bensì per aprire spazi politici e tracciare traiettorie verso un altrove.
Viviamo un’epoca tra le più difficili mai affrontate dall’umanità. La crisi climatica è la più grande sfida posta alla nostra intelligenza collettiva, ma fatichiamo a prenderne coscienza. Nel frattempo, il susseguirsi di crisi economiche e l’esperienza scioccante della pandemia non hanno scalfito un sistema economico, politico e sociale che causa ineguaglianza e depauperamento della Terra, mentre l’arroganza di chi non ha remore nello scatenare ed alimentare guerre produce morte e distruzione e ci pone di fronte alla costante minaccia dell’olocausto nucleare. Ma se andiamo a tirare i fili di queste e altre contraddizioni, arriviamo sempre al solito nodo: il sistema economico e sociale fondato sull’arricchimento di poche/i. Chi produce la gran parte delle emissioni climalteranti? Chi ha interesse a sfruttare e precarizzare il lavoro? Chi ci guadagna da guerre che hanno al centro la questione energetica? Potremmo continuare con un elenco infinito di domande, ma facciamo prima a scrivere la risposta: altrove, oggi, è la nostra destinazione.
Da questo punto di vista, il 22 ottobre rappresenta un passaggio importante, perché ci ha fatto fare un passo avanti nel percorso di maturazione della consapevolezza che la nostra sfida non è per difendere un singolo diritto, tutelare un metro quadro di territorio, scegliere una fonte energetica al posto di un’altra. La sfida è sistemica, e altrove, appunto, stanno le risposte. Questo si riflette sul piano dei contenuti e su quello dei processi.
Il Passante di Mezzo, per esempio, è diventato nel corteo del 22 ottobre “l’elemento simbolico più forte: in quelle strisce d’asfalto, infatti, c’è tutta l’arroganza di un sistema che vuol continuare a garantire profitti invece che diritti, cementificazione invece che transizione, imposizione invece che condivisione”. Questo significa che opporsi al suo allargamento concretizza l’aspirazione di sfidare questo sistema, “rovesciare i rapporti di forza”, mettere in discussione ciò che del riscaldamento globale è causa. Ma se l’opposizione al progetto di Società Autostrade è diventata generalizzata, e non trova risposte sul piano delle compensazioni e delle mitigazioni, articolata deve diventare anche la sua riflessione. Che non ha a che fare soltanto con la dimensione infrastrutturale e ambientale dell’opera, ma investe la nostra vita quotidiana: come si garantisce il diritto di tutte e tutti alla mobilità? Come si interviene nel settore della logistica, che rappresenta allo stesso tempo uno snodo imprescindibile dei meccanismi di generazione dei profitti, e un campo di sfruttamento e precarizzazione? Cosa significa spazio pubblico, e quali sono i suoi fini sociali? Qual è la gerarchia delle priorità, e dove si collocano la salute e la dignità delle nostre vite in questa scala?
Il corteo del 22 ottobre non ha risposto a queste domande. Ma se le è poste. Si è posto la sfida di rendere complesso e complessivo il ragionamento collettivo che fonda le nostre azioni, e ha aperto uno spazio nel quale cercare di definire e circoscrivere le rivendicazioni (qualcuno le ha etichettate come ‘nazionali’) perde di significato: la nostra vita è tanta, e fare convergere le sue dimensioni plurali è la sola strada per renderla bella.
E, quindi, convergenza. Che ha trovato la sua espressione concreta nella lunghissima testa del corteo, capace di rappresentare, con migliaia di volti, le complessità che affrontiamo. Ce lo mostrano le foto di quella giornata, nelle quali i colori si mescolano, così come hanno fatto le voci che per ore hanno riempito di parole la manifestazione. Oggi, dopo il 22 ottobre, su questa parola – convergere – si concentrano le riflessioni. Quel che ci ha raccontato la manifestazione – ma soprattutto il percorso che l’ha preceduta – è che convergere non è un metodo, e non può essere un processo metodico. Non si tratta di trovare la scatola giusta all’interno della quale mettere pezzi di rivendicazioni da sommare tra loro.
Piuttosto, convergere è – anche – essere complici. Complici di una scelta radicale, cercare l’altrove. Complici di lotte comuni. Per questo, oggi, non ci aspettiamo ‘l’assemblea della convergenza’, ma l’assemblaggio delle idee attraverso una ragnatela di relazioni. Vogliamo essere capaci di cogliere sguardi e interpretazioni, di cercare affinità e parole comuni, di vedere coerenze e complementarità. Vogliamo essere le/gli operaie e operai del Collettivo di Fabbrica GKN che rifiutano i ricatti; le/i giovani che cercano un futuro; le contadine e i contadini che coltivano il valore sociale dell’agricoltura; le/gli invisibili, chi è sfruttata/o, chi pratica resistenze e chi difende terre. Vogliamo un Pianeta in cui vivere la giustizia, e quindi cerchiamo giustizia climatica.
E, per chi non lo avesse capito, è proprio per questo, per altro, per tutto, che continuiamo ostinatamente ad opporci all’allargamento del Passante di Mezzo.
Foto di Giuditta Pellegrini