I movimenti producono da sempre nuovo lessico, o danno nuovo valore a termini che già abbiamo usato. È il caso del termine ‘convergere’, che in queste settimane è entrato stabilmente nel nostro vocabolario. Il significato – quello che ci propongono i dizionari – lo conosciamo bene; più difficile, invece, è la sua definizione politica.
Convergere significa prendere un punto, e fare di quel punto il luogo d’incontro. Per Bologna for Climate Justice, che nasce ponendosi la sfida di costruire ragionamento e azione intorno alla giustizia climatica, ‘convergere per insorgere’ è esattamente ciò di cui sentivamo il bisogno per immaginare il nostro futuro. Lo abbiamo scritto nel nostro Manifesto: la crisi climatica è la più grande sfida che l’umanità abbia mai affrontato, ma il punto non è semplicemente ‘salvare il Pianeta’, perché questo Pianeta e le relazioni economiche, politiche e sociali che lo caratterizzano sono alla base di disuguaglianze e ingiustizie inaccettabili e secolari, e le loro cause sono le stesse della crisi climatica.
La manifestazione in programma il 22 ottobre, che abbiamo la fortuna di contribuire a promuovere con decine di realtà grandi e piccole, è per noi un laboratorio importante. Perché un conto è dire “vogliamo giustizia climatica”, e un altro è costruirla. E queste settimane, nelle quali incrociamo storie, percorsi sociali, rivendicazioni, ce lo stanno dimostrando. Ma ci stanno anche insegnando che, per quanto possa essere ampio il nostro sguardo, c’è sempre qualcosa che ci sfugge, e quel qualcosa è fondamentale, se davvero vogliamo vivere la scommessa della giustizia climatica.
Da questo punto di vista, per noi ‘convergere per insorgere’ si sta rilevando prima di tutto una palestra. Uno spazio politico che ci insegna che per chiudere il cerchio, capire la complessità, affrontare il sistema che vogliamo cambiare, dobbiamo prima aver compreso fino in fondo ogni dettaglio. Che il nostro sguardo, che parte inevitabilmente da una chiave ecologista perché è da lì che nasce il nostro attivismo quotidiano, è incompleto e incapace di cogliere la complessità, fino a quando non osserva insieme a occhi che colgono dettagli diversi, ma coerenti.
Ecco perché, in queste settimane, rifuggiamo dalle gabbie mentali. Da quelle che costringono la convergenza all’interno di un perimetro organizzativo, nel quale la massima ambizione sarebbe quella di ‘stare tutte/i assieme’, perché tutte/i assieme abbiamo deciso come stare insieme; a quelle che piegano la convergenza sull’omologazione, rifiutando l’opportunità di cogliere nelle conflittualità i momenti di scoperta della complessità, e cercando in pochi slogan l’appagamento del proprio punto di vista, invece che una nuova domanda.
In queste settimane è sbocciato un processo politico che ha fatto dell’allargamento del Passante di Bologna lo spazio pubblico della convergenza. Non era nemmeno pensabile pochi mesi fa, quando il tema della grande opera che devasta Bologna era relegato alla sua dimensione infrastrutturale e ambientale non solo da chi vuole sminuirne l’impatto parlando di compensazioni e mitigazioni, ma anche da gran parte dei movimenti sociali. Per noi che di questa grande opera inutile siamo orgogliosamente oppositrici e oppositori, questo spazio rappresenta una speranza. Ma sarebbe un errore disastroso non saper cogliere l’opportunità che questo processo ha creato, che non è legata soltanto alla possibilità di allargare l’opposizione al progetto di Società Autostrade, ma anche all’occasione di costruire traiettorie alternative, mettendo cuore e cervello in quel concetto di giustizia climatica a cui alludiamo, ma del quale dobbiamo ancora costruire collettivamente le fondamenta.
Non sappiamo cosa produrrà la manifestazione del 22 ottobre, anche se la stiamo aspettando con eccitazione. Sappiamo, però, quel che ci sta appassionando di queste giornate: i confronti serrati, i dubbi mal posti, gli interventi inaspettati, i nodi non colti. La convergenza non è un processo organizzativo, un’assemblea, un coordinamento, un comitato centrale, o la scelta di una lotta a discapito di un’altra. È, più semplicemente, lo specchio della nostra insufficienza. E noi non ci stancheremo di guardarla, quell’immagine, per cogliere ciò che ci manca, e intravedere riflesso chi, tutto ciò, potrebbe condividerlo con noi. Perché se vogliamo cambiare sistema, dobbiamo prima conoscerne le complessità.
Foto di Michele Lapini