Quando, lo scorso 27 dicembre 2021, il consiglio comunale di Bologna approvò il progetto di allargamento del Passante di Mezzo, scrivemmo che quella scelta rappresentava per l’amministrazione comunale la più pesante eredità che avrebbe lasciato al termine del proprio mandato. Perché allargare un’autostrada urbana affossa ogni ambizione di vivere in una città carbon-neutral, e trasforma qualunque altra scelta in cura palliativa: non ci può essere ‘rivoluzione ambientale’ laddove “l’opera simbolo nazionale della transizione energetica” (sono parole del sindaco) è l’allargamento fino a 18 corsie di un’infrastruttura di cemento e asfalto che farà crescere di 25.000 veicoli al giorno il traffico.
Il Passante di Mezzo è la miglior metafora della crisi climatica: le sue cause, infatti, sono legate a un sistema che privilegia i profitti rispetto ai diritti, che dà priorità al PIL invece che alla cura e alla salvaguardia dei luoghi che viviamo, che garantisce privilegi a poche/i mentre tante/i non riescono nemmeno a pagare le bollette. Allargare quel tratto di autostrada e tangenziale significa condannare Bologna ad altri decenni di traffico e inquinamento e l’intero Paese alla dipendenza dai mezzi di trasporto privati; vuol dire consumare altro suolo prezioso, ma soprattutto conservare un sistema economico, politico e sociale che è causa della più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare: il riscaldamento globale.
Il Passante di Mezzo è il simbolo delle politiche energetiche che favoriscono le multinazionali, alle quali continuano a essere consentiti investimenti e profitti sulle fonti fossili e per le quali si scatenano guerre; rappresenta un modello nel quale le città diventano parchi tematici, e le fragili montagne luoghi dove massimizzare il profitto; perpetua un sistema economico in cui l’agricoltura non serve a produrre cibo di qualità per tutte/i, ma a garantire gli interessi dei grandi consorzi agroalimentari rivolti al mercato globale; concretizza una narrazione nella quale poche super-car prodotte con grande spreco di risorse collettive per soddisfare l’ego di poche/i diventano l’identità di un territorio, mentre la mobilità continua a non essere un diritto; persevera un modello politico per il quale il business plan viene prima della valutazione di impatto sanitario, e la messa a rischio della salute delle e dei cittadine/i è un danno collaterale da compensare.
È per queste e per tante altre ragioni che fine del mondo e fine del mese sono la stessa lotta. Che rivendicare il diritto ad avere un lavoro dignitoso, un salario equo, diritti sociali e civili significa anche prendersi cura delle prossime generazioni. Perché nel difendere i nostri diritti, li difendiamo anche per loro. E uno dei nostri e dei loro diritti è vivere la bellezza di ciascuna stagione, le diversità dei nostri territori, l’imponenza delle nostre montagne, le tonalità dei nostri mari. Significa avere la certezza di poter godere non solo dell’ambiente che si attraversa, ma anche della propria salute e della propria sicurezza. Questa prospettiva – quella in cui i diritti sono considerati beni comuni e i beni comuni un diritto – significa giustizia climatica. Che è la ragione che ci spinge a convergere per insorgere: per questo, per altro, per tutto, cambiamo sistema.