Inaspettata come le fragole a primavera, l’alluvione è tornata a prendersi le prime pagine dei nostri giornali. Nella roulette russa atmosferica, questa volta piangere morti e contare danni è toccato all’alta Toscana, appena al di là di quel crinale appenninico che lo scorso maggio si è sgretolato in migliaia di frane. Invece che Stefano Bonaccini, questa volta è stato Eugenio Giani – il presidente della Regione Toscana – ad appellarsi agli abitanti perché – se possono – si rifugino ai piani alti delle abitazioni.
Rifugiarci ai piani alti è la nostra nuova quotidianità? Chiuderci in casa in lockdown temporanei, sperando che i detriti non travolgano le quattro mura in cui viviamo, e guardando gli sforzi di una vita portati via dall’impeto delle acque è ciò a cui ci dobbiamo rassegnare? Sui crinali dei monti e lungo gli argini dei fiumi, ogni pioggia ormai significa paura, mentre le scuole chiudono e gli ospedali si allagano. Nel frattempo, altre vite sono irrimediabilmente perse, e i danni si contano a miliardi.
Eppure, di lezioni, negli ultimi mesi, ne abbiamo avute tante. Una fra tutte, quella che ha colpito a primavera il nostro territorio, l’Emilia-Romagna che ama definirsi locomotiva economica, motor-valley, food-valley, qualcosa-valley. Ma che, nell’alluvione, ha subito perdite inestimabili, perché la distruzione di vite e ricordi non si indennizza con il bonifico di un commissario governativo. Quella e le altre lezioni sono restate inascoltate: perché, finito di spalare il fango, si è tornati al tutto come prima. E, mentre non ci sono le risorse per curare l’Appennino ferito, miliardi di euro continuano a essere investiti in opere di cemento e asfalto che contribuiscono a rendere più deboli i territori che viviamo.
Solo in Emilia-Romagna, sette miliardi di euro sono a disposizione per allargare tutte le autostrade. Non solo il Passante di Bologna, ma anche le autostrade che dal capoluogo emiliano-romagnolo vanno verso nord, est e ovest. Le reti arancioni sono già comparse per decine di chilometri, in un’esibizione di efficienza sconosciuta sui crinali appenninici, dove le strade sono crollate, bucate, franate, dissestate, e dove non ci sono nemmeno i soldi per pulire le scoline ostruite.
Intanto, guardiamo in televisione le nuove catastrofi, e prepariamo ancora una volta guanti e stivali, che nemmeno avevamo fatto in tempo a riporre in cantina. Ma non possiamo spalare fango all’infinito; non perché la nostra solidarietà abbia limiti, ma perché è tempo di tirare somme e tracciare rotte nuove. Il modello sociale ed economico nel quale viviamo ci scarica addosso melma ogni giorno: lo fa con la cementificazione che rende instabili i luoghi che viviamo, ma anche precarizzando i nostri lavori e impedendoci di avere una casa degna; lo fa trascinandoci in un’economia militare, continuando a raccontarci la bugia che al profitto di pochi corrisponderà il benessere di molte.
Di melma da spalare, quindi, ce n’è tanta. E non bastano pale e stivali: insieme, dobbiamo aprire sentieri verso la giustizia climatica.