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Una grande opera: curare l’Appennino, ora

  • Categoria dell'articolo:Bologna
  • Tempo di lettura:4 minuti di lettura

Sono ancora una volta ore difficili per il nostro Appennino. Allagamenti, colate di fango, fiumi in piena, evacuazioni. Succede ogni poche settimane. Ad ogni pioggia nel tempo della crisi climatica. Non sono (più) eventi estremi, è il clima nel quale viviamo e vivremo.

I segni delle precedenti alluvioni – a partire da quelle del maggio 2023 – sono ancora ben visibili nelle valli e tra i crinali. Strade interrotte, cumuli di terra e pietre, terreni dissestati. Quando piove, chi vive in questi territori non sa se troverà aperta la strada per tornare a casa. Quel che poteva apparire un rifugio climatico rispetto alla città – un territorio boschivo con temperature meno insostenibili durante l’estate – si sta trasformando mese dopo mese in una trappola. Ci saranno ancora le strade per raggiungere scuole e ospedali, spazi di socialità e luoghi di lavoro, nelle prossime settimane? E le case sono ancora sicure?

Quello dell’Appennino è un dramma nel dramma. Nel più ampio contesto di un’alluvione oramai permanente, che ogni mese travolge pezzi della nostra regione, i crinali sembrano destinati a scivolare lentamente a valle. Colata di fango dopo colata di fango, spingono coloro che li abitano a considerare la possibilità di lasciare quei territori per luoghi percepiti come ‘più sicuri’. Anni di discussione sulle aree interne sono stati accompagnati da investimenti insufficienti e scarsa cura del territorio e delle sue infrastrutture. C’è chi ancora parla di nuove gallerie con cui perforare i monti da valle a valle, o di impianti di risalita laddove ormai quasi non nevica più, mentre tutto il resto scivola via, trascinato dalla forza delle acque.

Quando piove, è in Appennino che piove tanto. O, quanto meno, di più. E quell’acqua copiosa scende i pendii, raggiunge le valli e si incanala in corsi d’acqua antropizzati che, in poco tempo, trascinano verso la pianura fango e detriti, come le migliaia di alberi che si incastrano sotto i ponti. È da quei crinali fragili che, goccia dopo goccia, rigagnolo dopo rigagnolo, torrente dopo torrente, si formano le ondate di piena che poi minacciano e devastano le città di pianura.

Ecco perché, oggi, curare l’Appennino è l’unica grande opera sensata. Per parlare di futuro a coloro che lungo i suoi pendii ci vivono, mantenendo un presidio del territorio fondamentale per la sua manutenzione; e per creare le condizioni per prevenire – o quanto meno limitare – le devastanti conseguenze del veloce correre a valle dell’acqua.

Non ci saranno piogge meno intense. Il riscaldamento globale ha delle conseguenze che sono già in atto. Possiamo dirci che qualcuno lo sapeva da decenni, che sarebbe andata a finire così; ed è giusto indicare e maledire chi porta sul groppone questa responsabilità: coloro che a livello globale hanno voluto spillare fino all’ultimo dollaro dai pozzi petroliferi, per esempio; così come chi ha pensato che la ‘motor valley’ potesse diventare una spianata di asfalto e cemento senza che vi fossero conseguenze per chi la ‘valley’ reale la abita.

Ma oggi – e lo vediamo settimana dopo settimana – il dado è tratto. Piove, e il terreno ci scivola sotto i piedi. Quindi, se c’è una grande opera infrastrutturale da realizzare, è curare l’Appennino, garantire la qualità della vita di chi vi abita, e far si che quei crinali e quelle valli diventino il primo argine ecosistemico allo scorrere delle acque. La strada è una sola: fermare le tante colate di cemento già annunciate, per investire ogni euro disponibile nel futuro dei territori che viviamo.