Sono passati ormai due mesi dall’alluvione che ha colpito la nostra città. Nell’ultimo weekend è tornata la pioggia, insistente, e con essa la paura per migliaia di persone che, a ottobre, hanno visto l’acqua uscire letteralmente dalle proprie cantine, e invadere le case.
C’è una lezione che gli ultimi mesi ci hanno duramente insegnato. I fenomeni meteorologici a cui abbiamo assistito sono la nuova normalità: gli studi di climatologi e meteorologi ci avvisano da anni che l’aumento delle temperature medie avrebbe portato all’intensificarsi di fenomeni estremi. Alle nostre spalle abbiamo mesi e mesi in cui la temperatura media globale è stata ben al di sopra delle medie storiche, e il 2024 – che ancora non è concluso – sarà certamente l’anno più caldo mai registrato e il primo a superare la soglia di 1,5 gradi sopra i livelli pre-industriali stabilita dall’Accordo di Parigi (fonte: osservatorio europeo Copernicus). Se il mare è più caldo – e l’Adriatico di questi tempi è molto più caldo rispetto alle medie – l’energia che si accumula sopra le nostre teste è maggiore: la domanda non è più tra quanti decenni risuccederà, ma quale sarà il fazzoletto di terra che la prossima volta avrà l’acqua alla gola.
Nell’era della crisi climatica, le precipitazioni intense non sono più un fenomeno estremo. Un evento con un tempo di ritorno pluridecennale. Sono, invece, il nostro presente e il nostro futuro, ed è in questa realtà che dobbiamo immaginare come costruire il nostro vivere questi territori. Una normalità a cui non siamo preparati né noi, né un territorio che decennio dopo decennio è stato cementificato e infrastrutturato.
Da questo punto di vista, i dati diffusi ogni anno da ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sono eloquenti: nel 2023 – ovvero nell’anno delle alluvioni che hanno travolto la Romagna – la nostra regione ha impermeabilizzato altri 815 ettari di territorio: l’equivalente di quasi 1.150 campi da calcio. In un mondo in cui il successo sembra dover essere misurato a suon di graduatorie, e in cui la nostra regione si vanta d’essere spesso ‘eccellenza’, l’Emilia Romagna è seconda tra le regioni italiane per incremento assoluto di suolo consumato, e ha la percentuale più alta a livello nazionale rispetto al consumo di nuovo suolo in aree a pericolosità idraulica media. Un bel primato. Bologna, tra i capoluoghi di regione, vanta il quarto posto, giusto un gradino sotto questo poco invidiabile podio, con 21 nuovi ettari impermeabilizzati nel 2023.
C’è una domanda dietro a questi numeri: a che servono tutti i primati che vantiamo, se le nostre case poggiano su fondamenta di carta? Se ogni volta che piove dobbiamo improvvisare paratoie e circondare le nostre case di sacchi di terra, come fossimo in trincea?
In queste settimane si è ampiamente discusso dei danni prodotti dalle alluvioni, e di quelli dovuti alla rottura della tombatura del torrente Ravone. Sono temi importanti, di cui è giusto discutere, e alla quale vanno trovate soluzioni collettive. Perché, di fronte all’alluvione, emergono anche le differenze e le diseguaglianze sociali. Chi afferma che nella tempesta della crisi climatica siamo tutte sulla stessa barca, dice il falso. C’è una grande differenza tra chi nell’alluvione perde l’unica casa in cui vivere, ed è costretto a cercare un alloggio d’emergenza in affitto o a dormire in un hotel, e chi dispone di tante proprietà immobiliari. Tra chi ha un reddito medio e un mutuo da pagare, e non può permettersi nuovi debiti per ristrutturare la propria abitazione, comprare nuovi elettrodomestici o un mezzo per andare a lavorare, e chi può disporre di ampie risorse a cui attingere. E queste differenze ci dicono che la crisi climatica è prima di tutto un fenomeno sociale: un ‘esasperatore’ delle diseguaglianze esistenti che, nel suo dispiegarsi, porta con sé nuove diseguaglianze.
E’ da qui che dobbiamo ripartire. E questo significa che, di fronte alle conseguenze del riscaldamento globale, non possiamo limitarci a pensare a come risarcire i danni, perché nel gioco a perdere, è chi ha meno che perde comunque di più. D’altra parte, come abbiamo detto, la crisi climatica è qui e ora, e questo presente fatto di pale e stivali durante il quale abbiamo dedicato collettivamente migliaia di ore del nostro tempo a spalare fango e melma, non può e non deve essere il nostro futuro. Non possiamo buttare via tutto ogni volta per poi sperare in un risarcimento: dobbiamo, invece, ripensare il come viviamo i nostri territori, con la consapevolezza che non sarà un accorgimento idraulico a risolvere miracolosamente le sfide che il riscaldamento globale ci pone.
Sappiamo da anni che questa sarebbe stata la prospettiva. E questi report, che indicavano con chiarezza le traiettorie e le conseguenze del riscaldamento globale, sono da anni sulle scrivanie di presidenti del consiglio, ministri, presidenti di regione e sindaci. Solo che sono restati sempre sotto ad altri faldoni. Quali sono, oggi, le nostre priorità? Ereditare un territorio in cui le case vanno sott’acqua non è un fatto ‘naturale’, ma politico. Ed è nello spazio del dibattito politico e della contesa sociale, e non solo nel perimetro tecnico o tecnologico, che va immaginato il nostro futuro.
Non siamo tutti climatologi, meteorologi, ingegneri idraulici. Le soluzioni puntuali andranno costruite mobilitando conoscenze e competenze. Ma le domande a cui rispondere con queste soluzioni non possono che essere sociali: com’è lo spazio urbano che permette una vita bella nel tempo della crisi climatica? Quali sono, come dicevamo, le priorità a cui rispondere? Abbiamo bisogno di nuove strade, poli logistici, capannoni, o di investire ogni centesimo disponibile nella cura dei nostri territori? Vivremo meglio con qualche chilometro quadrato in più di asfalto, e con grandi aree verdi? La nostra quotidianità sarà migliore con 18 corsie di autostrada, o con infrastrutture ecologiche diffuse in grado di trattenere l’acqua nei momenti in cui diluvia, e metterla a disposizione nelle siccità che abbiamo di fronte?
Nei giorni che hanno seguito l’alluvione abbiamo letto tante dichiarazioni che affermavano che bisogna cambiare tutto. Siamo d’accordo. Cambiare tutto significa non soltanto risagomare il percorso urbano del torrente Ravone, o di qualunque altro corso d’acqua, ma costruire un nuovo rapporto con l’acqua e il suolo, reimmaginare il nostro essere urbano. E, nel farlo, dobbiamo pensare non solo all’alluvione, ma anche all’altra faccia del riscaldamento globale: la siccità e le ondate di calore. Perché negli ultimi anni abbiamo sperimentato anche cosa significa vivere per settimane con un caldo insopportabile. Vogliamo immaginarci un futuro nel quale passare gran parte delle estati chiusi nei rifugi climatici climatizzati, perchè piazze, cortili, strade, piste ciclabili sono roventi? Oppure vogliamo ripensare lo spazio pubblico per continuare a vivere i luoghi della nostra città anche quando la colonnina di mercurio sale? E come progettiamo la dimensione abitativa? Quali sono le case nelle quali vivere i prossimi decenni e in quale contesto urbano stanno?
Tutto ciò, ci sembra, significa ripensare il nostro vivere il territorio a partire da un verbo: desigillare. Mettere al centro questo verbo significa invertire quel trend disastroso che ci fa perdere ogni anno ettari ed ettari di suolo: ma significa anche ridare spazio al suolo nella città, attraverso depavimentazioni diffuse ed infrastrutture ecologiche. E questo, ovviamente, porta con sé un ragionamento sullo spazio pubblico e sulle sue destinazioni. Pensiamo alle immagini drammatiche di Valencia, che appena una settimana dopo Bologna è stata travolta dal fango, e alle migliaia di automobili accatastate dalla furia dell’acqua lungo le strade e le autostrade. Quelle immagini ci pongono di fronte a una serie di domande: se dobbiamo fare spazio all’acqua e alle infrastrutture ecologiche, possiamo continuare a immaginare gran parte della città come un parcheggio a cielo aperto, oppure dobbiamo trovare le forme sociali per ridurre il numero di automobili, mettendo tutte e tutti noi nelle condizioni di poterci muovere in maniera più libera ed efficace? E cosa significa considerare i bisogni sociali nel riflettere intorno al modello di mobilità che abbiamo ereditato?
La crisi climatica è un fenomeno complesso che apre scenari complessi. Eppure, dopo due anni di alluvioni, continuiamo a vivere in una delle regioni più cementificate e inquinate d’Europa, e di quel ‘cambiare tutto’ che sentiamo ripetere come un mantra abbiamo visto ben poco. Abbiamo strade mezze franate, torrenti senza sfogo, abbandono dei territori appenninici. Ma, soprattutto, non abbiamo alcun piano straordinario per riprogettare i luoghi che viviamo.
Questo è un tempo nuovo e sfidante. Che quindi ha bisogno di domande nuove e sfidanti. In cui dobbiamo porci l’ambizione di reimmaginare tutto. Pensare di non mettere in discussione nulla, di continuare sulle strade tracciate, di pescare le soluzioni da qualche miraggio ingegneristico, senza ridefinire le priorità e gli investimenti, significa preparare il terreno per la prossima alluvione. Dobbiamo, invece, avere l’ambizione di pensare alla Bologna dei prossimi decenni, perché questo presente in cui indossiamo stivali e impugniamo pale, non diventi un inevitabile futuro.