Il momento non è dei migliori. I grandi della terra non hanno neanche più voglia di ammantarsi di retorica sul greenwashing e la stessa finanza ha deciso di tornare a investire nelle energie fossili. Decenni di negoziazioni in nome del concetto di “sostenibilità” si chiudono con una svolta al contempo di classe e menefreghista: chi ha i soldi pagherà dell’aria condizionata, sistemerà la casa incendiata o alluvionata, passerà l’estate in luoghi freschi. Gli altri si adatteranno.
E se rimane ancora qualche dubbio, la corsa al riarmo sta arrivando ad asfaltare ogni discorso. L’urgenza di fare qualcosa per invertire la rotta è palpabile.
Nelle ultime settimane Bologna For Climate Justice sta avviando alcune azioni sotto lo slogan “desigillare”: togliere pezzi di asfalto e far rivivere il suolo. I motivi sono molti, ma da una prospettiva ecologista il primo è il fatto che, ricorda Paolo Pileri, «lo stoccaggio [di carbonio] da parte del suolo è circa tre volte quello di una foresta» [L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile, 2022, p. 29]. Ma non è solo quello: per esteso si tratta anche di porre un limite ad operazioni immobiliari che stanno avendo un impatto devastante sui territori dal punto di vista ambientale, sociale, economico e politico.
“Desigillare” è dunque una delle pratiche per ridare vita ad una città in cui le strade diventano fiumi e a restituire colore ad una città che da un po’ troppo tempo ha scelto di essere grigia.
Ma è anche un modo per porre un freno ad un modello di città sempre più elitario che vede costantemente aumentare il costo della vita, in particolare al costo dell’affitto, oggi superiore al 40% del reddito medio. Anche se forse occorre aggiornare il dato: secondo l’istituto Nomisma, nel 2024 a Bologna gli affitti sono cresciuti del 5,3%.
La rabbia del suolo
Nel 2023, l’anno delle alluvioni, l’Emilia-Romagna era al quarto posto per consumo di suolo e al secondo posto per incremento di consumo di suolo. Il 13% del consumo di suolo Emiliano-Romagnolo è concentrato nelle zone ad alta pericolosità idrica. Non male per una regione che in teoria una legge per limitare il fenomeno ce l’ha.

Eppure, nonostante l’allarme si procede sempre nella stessa direzione. A Reggio-Emilia proprio in questi giorni la lotta dell’Assemblea Bosco Ospizio ha portato ad un blocco dei lavori per impedire che un bosco urbano, di fianco alla via Emilia, ceda il posto ad un supermercato. A Carpi si è formato un gruppo per la Giustizia Sociale e Climatica dopo che, nell’agosto 2024, sono stati tagliati 40 ettari di bosco sulle rive del fiume Secchia.
A Bologna la situazione non è migliore. Fino ad una sessantina di anni fa, il Ravone poteva sfogare la sua rabbia con un certo margine di libertà. Ma l’urbanizzazione avviata negli anni Sessanta ha completamente coperto parte del suo percorso e in diversi hanno scoperto di aver il canale sotto casa proprio durante l’alluvione del 20 Ottobre 2024. Una sorpresa doppia che non tiene conto di quanto sottolineato da Wu Ming 2 durante il trekking del 15 Dicembre: il nome Ravone significa “Rabbioso”.
La toponomastica ci sta urlando addosso qualcosa dei luoghi in cui viviamo, ma il potere dell’asfalto anche è quello di alienare le persone dalla stessa terra che calpestano e a furia di costruire persino la verità perde terreno: nel convegno organizzato al Cinema Perla il 24 maggio 2024 dal Comitato Besta i presenti hanno guardato allibiti i dati pubblicati dal Comune di Bologna (che sono ancora qui) che segnalavano un consumo di suolo pari a 0%, a fronte di un dato ISPRA che per il 2022 riferiva un aumento del consumo di suolo del 96%.
Secondo gli stessi report, nel 2023 il comune di Bologna ha consumato 21 ettari in più dell’anno precedente, mentre a farla da padrone in regione è Ravenna, il cui ex-Sindaco è oggi Presidente della Regione.
Alieni di cemento
A quale scopo si consuma così tanto suolo? La prima ragione è la logistica: «il consumo di suolo dovuto alla logistica si concentra prevalentemente nelle regioni del Nord-Italia, con un massimo in Lombardia (1.085 ettari) ed Emilia-Romagna (944 ettari), che sono anche le regioni con la maggiore percentuale di consumato associato a logistica (7,03% e 7,56% rispettivamente)». [Dal rapporto ISPRA 2024, p. 140]. Inoltre, 504 ettari che nel 2023 il territorio nazionale ha regalato alla logistica, «il massimo di superfici consumate si trova in Emilia-Romagna con 101 ettari cementificati». Come se non bastasse, esiste pure una norma che crea delle eccezioni delle Zone Logistiche Semplificate istituite nel 2017: in Emilia-Romagna questo comporterà un consumo ulteriore di 1000 ettari ora classificati come “aree libere” e che saranno sigillate con agevolazioni economiche e limitazioni dei vincoli ambientali.

A capannoni, magazzini, parcheggi, si aggiungono strade, autostrade, svincoli, bretelle, cerniere, cinture con lo scopo-illusorio visto quando dimostrato dal Paradosso di Braess– che allargando le strade il traffico diventi più scorrevole. E infatti anche a Bologna le amministrazioni mantengono in vita un progetto come il Passante che ormai attende solo un suicidio assistito. Né al Comune né alla Regione interessa però dell’impatto di quest’opera sull’ambiente e sulla salute: tanto a pagare il prezzo saranno gli abitanti dei quartieri periferici, quelli dove il reddito medio è più basso. Le altre zone saranno risparmiate, o no?
Non esattamente. Riferendosi a Torino e Milano (a proposito: addio Salva Milano), Paolo Pileri nota che le torri di calcestruzzo sono tornate di moda e hanno cominciato ad apparire in diverse aree: «il risultato è quello di ritrovarsi dentro un meccanismo predatorio perverso che ha realizzato altezza (di lusso), ma anche dilatazione» [Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile, 2024, p. 98]. Con le dovute differenze, il fenomeno è visibile anche a Bologna.
Speculare non stanca
C’è un capannone in disuso? Facciamolo diventare un condominio, o un supermercato. C’è una scuola da ristrutturare? Costruiamone una nuova nella zona del parco! C’è un’area verde ai margini della città? Facciamoci degli uffici! Tanto non c’è nulla!

Foto di Serena Sgura
Il dispositivo che consente questi automatismi è una struttura al contempo economica, legale e politica che rende molto facile vedere in un luogo privo di attività umana una “zona vuota” e quindi “ da riempire”. Edificare, sigillare.
Questo dispositivo muove dal fatto che un “terreno agricolo” ha meno valore di un “terreno edificabile” e pertanto per chi è proprietario del terreno il guadagno da un terreno è immediatamente horror vacui pecuniario e l’ansia riempitiva è quasi automatica. E questo avviene in un paese che nei decenni passati ha facilitato l’acquisto di case di proprietà: avere un luogo, è un modo per non far parte (o in alcuni casi non sentirsi parte) degli esclusi. Lo stesso “bonus facciate” è un aiuto ai proprietari e non all’abitare in sé.
Ma se la casa di proprietà è un diritto per tutti, allora servono i terreni per costruirla. E senza un controllo dall’alto la speculazione è dietro l’angolo. Sara Gainsforth individua in un passaggio storico la fine del controllo amministrativo sull’uso del suolo da parte dei privati [cfr. Abitare Stanca. La casa: un racconto politico, 2022]. A inizio degli anni ’80, nel pieno dell’aspra stagione che diede avvio al riflusso politico, vengono emanate delle sentenze che sovrappongono il diritto di proprietà e di diritto di edificare. Gainsforth riprende una citazione da Vezio de Lucia [Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, 2006] secondo cui in questo modo l’Italia diventa «l’unico paese al mondo – dopo la Rivoluzione Francese- privo di certezza del diritto in materia di uso di suolo» [p. 169].
Inoltre, il tutto è avvenuto nel contesto della svolta neoliberale: Margaret Thatcher ha dato un forte impulso all’idea che “possedere una casa” dovesse essere centrale per l’individuo, sia dal punto di vista economico che dal punto emotivo [cfr. Alva Gotby, Feeling at home. Transforming the politics of housing, 2025]. Chi ha una casa si sente a posto, può concentrarsi su di sé e allontanare le difficoltà degli altri. Si sente incluso.

L’ideologia neoliberale ha trovato così nella rendita la sua più forte struttura narrativa, in grado di rinforzare un potente assunto, altrettanto ideologico, che probabilmente ci portiamo dietro dai processi di “terraformazione” avviati col colonialismo: laddove un terreno non è edificato, occorre accaparrarselo con l’intento di metterlo a valore. Il terreno deve fruttare.
Oggi, le aree urbane in cui l’umano non interviene sono luoghi lasciati al “degrado”. In esse, infatti, trovano rifugio specie animali o esseri umani che si vorrebbe eliminare dalla città in nome di un’idea di decoro sempre più votata verso il lusso e che ormai, come scrive l’Assemblea Bosco Ospizio, non riguarda solo i soggetti marginalizzati, ma anche gli animali non addomesticati.
Questo perché, per l’effetto di lunga durata delle sentenze riportate da Gainsforth, ad accaparrarsi fette di suolo non sono i ceti minori, ma l’altra lama di una forbice sociale sempre più tagliente.
Vecchi e nuovi principi di Salina

Foto di Michele Lapini
La prossima grande trasformazione in città riguarderà l’allestimento del Tecnopolo, dietro la Zona Fiera, in un’area che affaccia sulla Tangenziale Nord e sull’Autostrada, ossia dove si vorrebbe fare il Passante. Facendo finta di glissare sulle questioni ambientali che il Tecnopolo implica, è però evidente che il progetto è pensato sull’onda di un modus operandi ormai rodato e che mostra, scrive Salvatore Papa, come non ci sia «nessuna intenzione di rinunciare al paradigma della crescita continua e ai suoi rischi legati all’aumento dei valori immobiliari». E così, in automatico, l’innovazione rappresentata dal Tecnopolo porta a nuove esigenze come quella di nuove case per i redditi i lavoratori di questo nuovo centro esclusivo. Case da costruire, ovviamente, come avvenuto per le 5000 abitazioni costruite negli ultimi dieci anni, visto che l’idea di usare gli immobili sfitti è abbastanza recente. Senza dimenticare la nuova torre che si prevede per ospitare le aziende interessate (da Nomisma a Ndivia): 15mila metri quadrati.
È significativo il fatto che a fare da volano nei decenni al consumo di suolo bolognese sia stata proprio la zona Fiera che negli anni Settanta ricopriva 5mila metri quadrati e oggi ne ricopre 375mila. Quegli edifici- moltiplicatisi negli anni grazie al fenomeno del Motor Show- oggi ospitano un numero altissimo di eventi che per pochi giorni attraggono in città un numero crescente di visitatori, con conseguente innalzamento dei numeri di affitti brevi e trasporti ad hoc.

In termini di consumo, i cambiamenti della città negli ultimi anni hanno funzionato: nel 2024 i turisti sono aumentati – anche grazie alla crescita esponenziale dei voli all’aeroporto Marconi – con un +13,3% sui pernottamenti (dati qui) nutrendo ancora di più il fenomeno di airbinbification della città. In particolare, sono aumentati i turisti che il “turismo leisure” o quello dovuto a eventi congressuali, che hanno nella Fiera il loro punto di riferimento.
Al di là del progetto Passante anche altre infrastrutture investono nell’area, chi arriva a Bologna da fuori ha altri modi per arrivare in zona. Rome2Rio – portale usato dai turisti per i viaggi urbani- consiglia di prendere il People Mover fino alla Stazione Centrale (12,80 euro) e poi muoversi a piedi. In alternativa c’è un autobus diretto che porta alla Fiera (costo del biglietto: 10 euro). In entrambi i casi, se si è in due conviene il taxi.
A breve alla Zona Fiera si potrà arrivare anche con la linea Rossa del tram, che avrà in quella zona un punto rilevante. Il dibattito rispetto al tram è stato viziato fin dall’inizio proprio perché innestato in un ragionamento che vede in Bologna una città da consumare. Perché, per esempio, costruire i suoi depositi in un’area agricola?
E poi: in una città in cui si spendono 41 ore l’anno nel traffico, non bisognerebbe invogliare al trasporto pubblico con tariffe studiate appositamente?
E ancora: a fronte di un indotto in aumento, perché il costo della vita aumenta? Nelle tasche di chi finiscono quei soldi?
La foglia di Fico

Proseguendo sulla futura Linea Rossa del tram poi arriviamo in un’altra zona calda: l’Ex Caab, oggi dedicato ad un progetto chiamato Gran Tour, che fino a poco tempo fa si chiamava Fico.
Fico non ha mai funzionato e non c’era verso che funzionasse. Nell’intervista recentemente concessa a Report, Farinetti quasi ride nel raccontarlo. Ride perché sa che quel fallimento in realtà ha funzionato abbastanza bene, da diversi punti di vista.
Per esempio, Fico ha “funzionato” in città, trasformando quella che era una capitale di cultura nella capitale del food, col maiale insaccato a fare da simulacro religioso. La scorsa estate il fenomeno è stato commentato in un articolo di opinione del New York Times (se ne parla qui sulla rivista Lucy sulla cultura) in cui la città è definita «un inferno turistico».
In realtà a stupire è lo stupore, perché la questione era già nota da tempo. Rispetto a quanto avveniva la rete di Eat The Rich che già nel 2017 faceva un’analisi retrospettiva sulla «progressiva trasformazione della nostra città in uno spazio a misura di residenti ad alto reddito e turismo superficiale».

Foto da Zic.it
Fallisce la Dinseyland della periferia, ma vince la Disneyland del centro storico. Fallisce la Disneyland del cibo e vince quella del mattone. Già, perché la puntata di Report suggerisce infatti qualcosa già evidente da tempo, ossia che dietro che a FICO ci sia in realtà un’operazione di speculazione immobiliare (in questo momento gestita da PRELIOS S.p.A) assolutamente non trasparente. L’operazione Fico, costata 180 milioni, di cui 60 vengono dal pubblico (il valore dell’area), è già costata molto e costerà molto di più quando i nuovi investimenti speculeranno su quei terreni. Lo sperpero dovuto allo sfruttamento del suolo produce di fatto una città priva di risorse, una città per le élite.
E allora un’altra domanda sorge spontanea: perché non far pagare agli Oscar Farinetti di turno la desigillazione della nostra città? E magari non solo quella.
Lusso
Che in città ci fosse bisogno di respirare lo scriveva anni fa XM24. Oggi al suo posto si prevede un co-housing che rappresenta un avanzamento distopico, dato che -scrive Mauro Boarelli– per quanto riguarda i criteri di accesso, «dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti». In altre parole: la questione materiale è resa invisibile.

XM24 è stato sgomberato perché deturpava la vista ai futuri abitanti della Trilogia Navile. In alcuni edifici ancora in costruzione, il prezzo è di un appartamento di circa 3700 euro al metro quadro. Poco distante, nei nuovi palazzi di via Saliceto, il prezzo è di 3000 €/m². Nella stessa via, Immobiliare.it indica prezzi a partire da 2.472 €/m²: nei nuovi palazzi il costo della casa varia circa dai 500 ai 1100 euro in più al metro quadrato rispetto a al prezzo degli edifici già esistenti. Sempre al quartiere Navile lo studio Lombardini22 attraverso il Fondo Fidia (del proprietario Prelios, lo stesso che ha la proprietà dell’ex-Caab) ha previsto la costruzione di due torri da 11 piani. Il prezzo degli appartamenti è di 3600 euro al metro quadrato.
I nuovi edifici stanno portando all’innalzamento dei costi delle abitazioni e degli affitti e laddove si prevede una parte di edilizia popolare la logica è quella espressa pochi giorni fa rispetto alla “riqualifica” della ex-Casaralta (via Ferrarese): 130-140 appartamenti il cui 30% è destinato a Edilizia Residenziale Sociale e l’ipotesi, per il restante, di una struttura mista hotel-studentato, un’idea in cui riecheggiano altre ferite vive come lo Student Hotel che ha preso il posto di Social Log in via Fioravanti, o lo studentato Beyoo di Via Serlio.

Infografica dal profilo di Will-ita
Percentuali di appartamenti e stanze a prezzi calmierati esistono. Ma a che idea di città corrispondono? In un contesto che vira verso il lusso, le case delle fasce più deboli vengono viste come eremi in cui rinchiudersi, invece che luoghi appartenenti ad un tessuto vivo che influisce materialmente sulla vita delle persone. Si finge di non notare che, in una città in cui l’inflazione è più alta che nel resto del paese, ad aumentare è il costo di tutti i beni di consumo: a Luglio 2024, +18% per le verdure, + 9,4% per il pane.
Investiamo così in nuovi edifici super efficienti in termini energetici, corredati di tutti i servizi nelle immediate vicinanze e una spruzzata (giusto quella) di giardinetti antistanti. Ma a che costo!
Per chi è la città?
Conclusione
Pochi giorni fa, Zerocalcare ha disegnato le forme di auto-organizzazione del Quarticciolo come una foresta che resiste al deserto della repressione del decreto Caivano. In maniera non dissimile Xm24 era descritto come “una foresta in città”. Anche nelle prese di parola che non rimandano immediatamente alle questioni ecologiste, l’idea di una città migliore si riconnette a forme di organizzazione che esigono un modello differente.

Foto da Infoaut
Nelle case occupate, negli esperimenti educativi dal basso, nei luoghi reali e in quelli possibili del mondo transfemminista, nelle assemblee che ragionano sull’alluvione di crack che invade la città, in mille altri soggetti risiede la forza per immaginare qualcosa di differente dal consumo famelico di suolo, di soldi, di sudore, di vita.
Pensare al desealing vuol dire immediatamente pensare alle condizioni materiali delle persone che già vivono il territorio. I fondi destinati ai proprietari di casa per efficientare gli stabili non risolvono il problema. E allestire bei giardinetti non è la soluzione ad una città sempre più invivibile per le sue temperature. Specialmente se lo si fa dopo aver spalancato i portoni al lusso, al mercato e alla speculazione. Rispetto a questo laissez-faire, l’amministrazione cittadina e regionale sono responsabili.
Per chi guarda la città dal basso rimane un dato: le implicazioni dovute all’aumento del consumo di suolo contribuiscono anche all’aumento drammatico del costo della vita.
Per inverso, fermare il consumo di suolo è un’azione -una delle tante- necessaria per fermare l’avanzata di un’élite sempre più vorace.
Bisogna cominciare a pensare che un metro quadrato di asfalto in meno è un centesimo di affitto in meno.
Troppo poco.
Per questo occorre toglierne parecchio, se vogliamo tornare a respirare.