Le ultime giornate sono state concitate, entusiasmanti e drammatiche allo stesso tempo. Al Parco Don Bosco è andata in scena la determinazione di quante/i difendono un fazzoletto di bosco che sentono importante per la propria vita. Ma, nell’abbattimento di alcuni alberi, mercoledì scorso, abbiamo visto anche un’altra determinazione: quella di un modello di governo del territorio che avrebbe voluto imporre una visione di città nonostante tutto e tutte/i.
Una complessità crescente si è intrecciata con il futuro di una scuola. L’incontro di lunedì tra il comitato Besta, che in questi mesi ha animato la difesa del parco, e l’amministrazione comunale, ne è la sintesi. Il confronto arriva dopo una settimana ad alta tensione – con le cariche tra gli alberi, il presidio che si riprende il cantiere, l’arresto notturno violento di un giovane presidiante – che ha evidenziato i limiti di percorsi istituzionali incapaci di cogliere i tanti bisogni che lo spazio urbano esprime.
Da questo punto di vista, possiamo abbozzare alcune considerazioni. La prima, che questa vicenda ha reso evidente, è che il conflitto è parte generativa del processo democratico, e come tale va considerato; fanno sorridere le argomentazioni di chi afferma che c’era stato un percorso partecipativo al quale oggi bisognerebbe adeguarsi: la partecipazione non è a tempo, non ha scadenze, e l’opposizione al progetto cresciuta negli ultimi mesi evidenzia che il coinvolgimento istituzionale era stato quantomeno fallace; e questo, del resto, lo riconosce anche il sindaco Matteo Lepore. E lasciano il tempo che trovano le dichiarazioni di parlamentari dei diversi schieramenti che in questi giorni hanno cercato nel proprio bignami la frasetta a commento degli avvenimenti che hanno attraversato la città, senza nemmeno prendere in considerazione che chi presidia il Parco Don Bosco esprime un bisogno sociale ed ecologico che ha bisogno di essere valorizzato, non criminalizzato. Invece, c’è un qualcosa in più: queste settimane hanno dimostrato che i conflitti fanno emergere bisogni diffusi e proposte collettive che devono essere parte attiva della progettazione urbana; e, allo stesso tempo, che i conflitti fanno crescere la consapevolezza del valore di processi collettivi di riappropriazione dell’urbano. Sono, in altre parole, un ingrediente fondamentale per quell’innovazione sociale di cui abbiamo bisogno per affrontare sfide complesse e difficili come quella della crisi climatica, per le quali il business as usual non può essere una risposta.
La seconda considerazione è che oggi è fondamentale cambiare il tavolo di discussione e le sue routine. Nell’uscire dall’incontro con l’amministrazione comunale, il comitato ha parlato di “immaginazione civica”, non a caso l’etichetta che caratterizzava l’assessorato che guidava, nella precedente amministrazione, l’attuale sindaco. E di immaginazione, ora, ce ne vuole tanta: perché per affrontare questa complessità serve andare oltre il burocratese delle gare d’appalto e dei processi amministrativi, oltre il calcolo degli investimenti e le scadenze dei fondi, oltre una settorialità istituzionale che mette una scuola in contrapposizione a un parco, oltre processi decisionali che prevedono l’esclusione di chi, per dirla con le parole di alcuni esponenti politici, non sarebbe arrivato in tempo per esprimere la propria opinione.
Immaginazione civica deve significare progettare un intervento di edilizia scolastica all’interno di un parco pubblico; perché, nell’era della crisi climatica, è impensabile che educazione e biodiversità, spazi formativi e alberi, design scolastico e bosco urbano, possano essere in contrapposizione. Grazie alla caparbietà del comitato, oggi quella del Don Bosco è un’occasione per Bologna: l’occasione di dimostrare che è possibile dare al quartiere una scuola confortevole ed efficiente senza sacrificare altro suolo non cementificato; di progettare un intervento che sia allo stesso tempo infrastrutturale ed ecologico, capace di andare oltre la logica compensatoria e di immaginare ibridi tra culture e nature; di coinvolgere le tante espressioni di attivismo di quartiere per costruire percorsi di protagonismo sociale, valorizzando – invece che criminalizzando – la presa di parola di tante/i residenti.
La vicenda del parco Don Bosco ha portato a un bivio: dimostrare che l’immaginazione civica non è l’ennesimo fiocco con il quale impacchettare processi decisionali già chiusi, ma una pratica che può innovare e mettere al servizio dei percorsi collettivi anche i più stretti vincoli amministrativi e burocratici; oppure dichiarare che quell’etichetta è uno slogan dietro al quale nascondere cronoprogrammi e progettazioni che, al massimo, possono essere definiti ‘lavori pubblici’, ma che niente hanno a che fare con l’innovazione e la capacità di riconoscere la biodiversità ecologica e sociale che dovrebbe essere il vanto della ‘città più progressista d’Italia’.
Al Parco Don Bosco si è aperta una sfida: riguarda il futuro di tanti alberi ritenuti indispensabili per la propria vita da molte/i abitanti del quartiere, e per questo difesi dal presidio; ma riguarda anche i termini con i quali affrontare il protagonismo sociale, complesso e asimmetrico, nello spazio urbano. Ritirare l’attuale progetto è il viatico per ripensare e riprogettare un intervento di edilizia scolastico innovativo ed efficace, capace di garantire ottime prestazioni energetiche, uno spazio educativo all’altezza dei tempi che viviamo, e zero consumo di suolo, cogliendo la forza, la creatività e la capacità propositiva espressa dalla mobilitazione di queste settimane.