Pochi giorni dopo l’alluvione che ha devastato l’Emilia Romagna, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha annunciato una task force per il “dissesto idrogeologico e un piano di adattamento all’emergenza climatica all’interno della Città metropolitana, che studi e approfondisca gli eventi accaduti, mettendo a disposizione di tutta la comunità dati, evidenze e ipotesi di lavoro in materia di manutenzione e cura del territorio, prevenzione del dissesto idrogeologico e gestione delle acque nel contesto bolognese”. Un annuncio a cui hanno fatto seguito dichiarazioni sui principali quotidiani locali nelle quali il primo cittadino ha affermato che “il cambiamento climatico impone che da qui in poi si cambi”, e che “dobbiamo anche saperci chiedere se una strada va ricostruita oppure no”.
Che gli strumenti conoscitivi e i piani di gestione del territorio non siano adatti all’era della crisi climatica non è una novità. Così come non lo sono le scelte politiche che chi governa i territori ha assunto negli ultimi anni; in un articolo su Altreconomia, Paolo Pileri (docente di Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano) ha ricordato, riportando i dati del rapporto Ispra sul ‘Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici’, che tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale. In pochi anni – e con questi governanti – la Regione è arrivata ad avere una superficie impermeabile dell’8,9% contro una media nazionale del 7,1%. E tutti sappiamo perfettamente che sull’asfalto l’acqua non si infiltra e scorre veloce accumulandosi in quantità ed energia, ovvero provocando danni e vittime”.
Che il territorio che viviamo non sia pronto ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico è il segreto di pulcinella, e non era necessaria una doppia alluvione in meno di quindici giorni per scoprirlo. I report erano da anni sui tavoli di sindaci e presidenti delle regioni che, evidentemente, hanno deciso di riporli in un cassetto per dare la priorità ai faldoni dei nuovi progetti infrastrutturali che dovrebbero garantirci qualità della vita e benessere e che, invece, hanno dimostrato di essere parte di un problema ormai gigantesco, che provoca lutti e devasta le case e i luoghi che viviamo. Perché se le piogge concentrate in pochi giorni – e intervallate da lunghi periodi di siccità – sono il risultato del riscaldamento globale prodotto dall’uso delle fonti fossili, la fragilità del territorio e la violenza con la quale le acque se ne sono impossessate sono figlie di scelte pianificatorie che hanno sottratto spazio ai corsi d’acqua e impermealizzato il suolo.
E allora, a che serve l’ennesima task force? Perché, diciamocelo, un conto è affermare che si costruisce una struttura tecnico-scientifica che possa permetterci di rimettere in discussione le scelte già fatte con le quali si cementificano ettari di territorio; e un’altra cosa è dire che si istituisce una task force di brillanti espert*, ma non si mette in discussione il business as usual. E il sindaco ha scelto la seconda opzione, annunciando una task force senza aggiungere una parola sulle grandi opere cementificatorie che la sua amministrazione ha approvato in questi anni. Il Passante di Mezzo ne è il simbolo, ma è una tra le tante: perché la maggioranza che lo sostiene ha approvato anche l’allargamento di tutti i tratti autostradali che convergono su Bologna, mentre al Paleotto la costruzione dell’ennesima bretella ha provocato l’abbattimento di centinaia di alberi, che cadono un po’ ovunque per far posto a nuove urbanizzazioni che passano sui tavoli dell’amministrazione comunale.
E allora, che ce lo dica chiaramente, il primo cittadino: ‘task force Lepore’ è la nuova punta di diamante del apparato propagandistico di un’amministrazione che sull’emergenza climatica appende striscioni alle finestre di Palazzo D’Accursio e stende asfalto sui prati della città metropolitana.