Sono passati tre mesi dall’alluvione che ha colpito Bologna. Commissari, sindaci, presidenti hanno iniziato le proprie tournee nelle aree più colpite. Tutti promettono interventi. Tutti chiedono fondi. Per fare che? Per fare cose. L’ennesima alluvione ha solleticato gli istinti securitari: se l’acqua ha rotto la tombatura, bisogna fare muri più resistenti, argini più alti, casse di espansione. Va bene. E mettere in discussione le prossime colate di asfalto e cemento? No.
Sono passati tre mesi anche dall’alluvione che ha travolto Valencia, in Spagna. Che, nella sua drammaticità, dovrebbe aver insegnato qualcosa: se quel che ha vissuto negli ultimi due anni la nostra regione è la nuova normalità, nella crisi climatica le catastrofi possono fare salti di scala inimmaginabili. Le temperature medie globali, del resto, sono permanentemente ben al di sopra delle loro medie storiche, mentre il Mediterraneo è incredibilmente caldo e promette di caricare di umidità le perturbazioni che attraverseranno la penisola. Quindi, come la mettiamo?
Perché se questo è il quadro – e se, per chi se lo fosse scordato, abbiamo perso il conto del numero di volte in cui i territori della nostra regione sono stati invasi dal fango negli ultimi due anni – un pizzico di consapevolezza imporrebbe di fermare tutto, per capire e (ri)pensare crinali, valli e pianure diventate irrimediabilmente fragili. Nei giorni successivi all’alluvione abbiamo chiesto a che ci servono 18 corsie di autostrada se le nostre case finiscono costantemente sott’acqua. Non è una domanda retorica: davvero, nel contesto che viviamo, le cosiddette ‘opere strategiche’ continuano a essere delle corsie autostradali? Che, lo sanno pure i muri che sono crollati di fronte all’impeto del Ravone, aggravano il consumo di suolo e quindi il quadro generale nel quale viviamo la crisi climatica.
Qualche giorno fa, in un convegno ospitato in Sala Borsa, il sindaco di Bologna ha ribadito la necessità di realizzare quest’opera “strategica”, affermando – tra le altre cose – che se il numero di auto in transito diminuisse, potremmo fare delle riflessioni diverse, ma che questo non sta avvenendo. Quindi – conclusione – dobbiamo allargare l’autostrada.
Invece, il tema è esattamente questo: ridurre il bisogno di infrastrutture che cementificano il suolo, per poter realizzare le infrastrutture ecologiche necessarie alla nuova realtà climatica. Senza nascondersi dietro al dito della scala nazionale dell’infrastruttura autostradale: perché se Bologna subisce da decenni una ‘servitù di passaggio’, è giunto il momento di affermare che questo territorio rifiuta i gas di scarico e il carico di cemento che questa servitù comporta. Immaginare futuri diversi significa avere l’ambizione di ripensare radicalmente tutto. E la mobilità, che sia locale, regionale, nazionale, internazionale o intergalattica, è parte di questo tutto.
Non basta riprogettare la tombatura del Ravone. Perché la prossima volta sarà il Savena. O il Navile. O l’Aposa. O, magari, un altro corso d’acqua che nascerà dal nulla invadendo quelle autostrade per le quali si continuano a investire miliardi di euro. Nel perseguire la realizzazione di opere progettate in un passato che non c’è più (e con la Valutazione di Impatto Ambientale realizzata nel decennio scorso), si nasconde il business as usual che deve garantire rendite di posizione e profitti consolidati. E si consolida il business as usual delle alluvioni: la catastrofe come elemento permanente del nostro tempo, perché in questo tempo ci si rifiuta anche solo di considerare di cambiare tutto.
Questo presente non è il nostro futuro; togliere asfalto, desigillare, depavimentare: sono queste alcune delle azioni che renderanno il domani lo spazio nel quale vivere il riscaldamento globale. Si voleva fare un’autostrada californiana per poi definirla l’opera simbolo della transizione ecologica; poi, però, sono arrivate le alluvioni, ed è tempo di prenderne atto rimettendo in discussione progetti che parlano del passato, infangando il futuro. Perchè a Bologna il progetto di allargamento del Passante è già un simbolo: rappresenta il negazionismo rispetto alla nuova realtà prodotta nei nostri territori dal riscaldamento globale.
Nella foto, l’alluvione che ha colpito Valencia a ottobre 2024.