Avremo un governo contro la transizione ecologica, che vorrà costruire inceneritori, centrali nucleari, rigassificatori, sfruttare le (scarse) fonti fossili presenti nel ventre del Belpaese, progettare nuove grandi opere per far girare gli investimenti (e garantire i profitti), cementificare suolo agricolo. Un governo che non porrà il problema della qualità di ciò che si produce e della vita di chi lo produce; che non domanderà a nessuno di mettere al servizio delle comunità i profitti esagerati, mentre comprimerà i diritti e criminalizzerà le minoranze e coloro che, per fuggire dalla guerra, dalle crisi economiche, dalla repressione e dai disastri ambientali, tenterà di attraversare il Mediterraneo su un’imbarcazione di fortuna.
Avremo, insomma, il governo che avremmo avuto qualunque fosse stato il verdetto delle urne elettorali.
Perché la crisi climatica – e le sue drammatiche ricadute sociali – non ha spazio nei palazzi istituzionali. E la ragione è semplice: affrontarla, garantendo al contempo a tutte/i una vita degna, significherebbe mettere in discussione interessi consolidati e posizioni di privilegio che in quegli stessi palazzi hanno un’influenza ormai radicata, quando non una vera e propria presenza.
Un anno fa, Re:Common faceva emergere l’esistenza di un protocollo tra ENI e ministero degli Affari Esteri che permette al gigante petrolifero italiano di stanziare i propri uomini presso il dicastero per un periodo illimitato di tempo. Le multinazionali che si arricchiscono sul riscaldamento globale sono le stesse che finanziano i grandi festival musicali, e addirittura la festa del Primo Maggio organizzata dai sindacati confederali. Le ritroviamo tra le pagine dei principali quotidiani, con inserzioni pubblicitarie o articoli sponsorizzati e, troppe volte, nelle scuole e nelle università, con programmi educativi sostenuti economicamente e dai contenuti quantomeno discutibili.
Quando parliamo di giustizia climatica, lo facciamo dando per assodato che questa non si costruisce all’interno del ‘sistema’ che viviamo. Che non è un insieme di compensazioni, mitigazioni e mediazioni, come hanno provato a raccontarci coloro che condividono la responsabilità d’aver approvato grandi colate di cemento come l’allargamento del Passante di Mezzo. Giustizia climatica significa affrontare la povertà energetica, garantire a tutte/i benessere, promuovere l’educazione scolastica e l’accesso alla cultura, ridefinire lo spazio pubblico, cambiare le priorità sulle quali stanziare i fondi pubblici, rifiutare la guerra e tagliare i finanziamenti all’industria bellica, affermare il diritto alla mobilità collettiva e sostenibile, e tante altre cose che sono perfettamente coerenti con l’obiettivo di abbattere le emissioni climalteranti, ma non lo sono con gli interessi economici consolidati.
Quasi un anno fa, Oxfam diffondeva uno studio che racconta un rapporto di causa-effetto evidente: all’aumentare della ricchezza, aumenta il contributo alle emissioni di Co2. Questo mentre nel mondo i super-ricchi sono sempre più ricchi. Lo studio, in altre parole, dice che non è l’umanità ad aver alterato drammaticamente gli equilibri naturali del Pianeta. La responsabilità è, invece, del capitalismo, e del suo principio più inumano: quello che la ricchezza si può accumulare, invece che condividere. Avremo un governo che resterà fedele a questo principio, come lo sono stati i governi che abbiamo avuto finora, e che, per questa ragione, farà di tutto per impedire la giustizia climatica.
Per questo, lasciata alle spalle la campagna elettorale, guardiamo con fiducia alla manifestazione del 22 ottobre, alle relazioni convergenti che si stanno costruendo, all’urgenza di immaginare alternative che non passano per le aule parlamentari e i consigli comunali, ma si costruiscono nelle piazze e nelle strade delle nostre città.
“A sarà düra”, gridano da anni e con orgoglio le/i NoTav, riferendosi alla costruzione della nuova linea ferroviaria ad alta velocità/capacità. Non c’è dubbio che saranno mesi difficili per noi, ma che dobbiamo avere l’ambizione di rendere difficili anche per loro, come da decenni fanno i valsusini con coloro che vogliono devastare la loro valle. Quelle dei NoTav possono essere le parole di una resistenza che, nelle strade, si fa alternativa reale, che converge per insorgere, che costruisce giustizia climatica. E, se proprio vogliamo riprendere i tanti slogan che fanno parte della nostra cassetta degli attrezzi, oggi non possiamo che domandarci “se non ora, quando? ”
Per questo, per altro, per tutto, fight for climate justice.
Foto di copertina di Michele Lapini