Siamo nel pieno di una campagna elettorale nella quale le azioni necessarie per affrontare la crisi climatica sono, ancora una volta, piegate alle logiche del mercato. Da ogni angolo ci sentiamo ripetere che sono necessari rigassificatori, inceneritori, centrali nucleari, nuove grandi opere e più asfalto: e tutto ciò è presentato come ‘sostenibile’, parola diventata passepartout per mascherare qualsiasi scelta dannosa come orientata alla transizione ecologica.
Ne sappiamo qualcosa a Bologna, dove l’allargamento di un’autostrada è diventata “l’opera simbolo nazionale della transizione ecologica”; ma anche a Ravenna dove il commissario straordinario Stefano Bonaccini lavora per imporre un rigassificatore, o a Coltano dove una base militare viene presentata come ‘sostenibile’ dal punto di vista ambientale. È una storia che viene da lontano, e che attraversa l’Italia dalla Val Susa a Taranto, dalla laguna veneziana alla Sardegna, toccando miniere, poli logistici, impianti tossici di generazione dell’energia, terre sfruttate per l’agricoltura intensiva, e tanto altro ancora.
Del resto, basta guardare i tabelloni pubblicitari, dove le multinazionali del fossile o le grandi case automobilistiche ci raccontano di essere al lavoro per costruire la transizione ecologica. Peccato che tutto ciò serva soltanto ad alzare una cortina fumogena dietro la quale nascondere i soliti investimenti e gli ormai ingiustificabili profitti che essi garantiscono. Tutto ciò mentre chi lavora è ogni giorno sempre più posto di fronte al dilemma tra fine del mese o fine del mondo, ricevendo in cambio salari incapaci di coprire il crescente costo della vita e accettando che il proprio lavoro – quando c’è – contribuisca a rafforzare le cause del riscaldamento globale.
Il nostro futuro – e quello delle generazioni che verranno – è ormai appeso a un filo. Ma, come sul Titanic, l’orchestra della crescita infinita continua a suonare gli spartiti del Prodotto Interno Lordo, mentre qualcuno si prepara a riservare l’accesso alle scialuppe di salvataggio a coloro che avranno abbastanza risorse per comprarsi i posti migliori.
In questo scenario, i nostri sogni di una vita bella, giusta e solidale si sintetizzano in due parole: giustizia climatica. Ed è intorno a esse che, nell’ultimo anno, sono nate convergenze promettenti: quelle costruite da coloro che hanno capito che fine del mese e fine del mondo sono due facce della stessa medaglia, ovvero figlie di quel sistema che sfrutta alla catena di montaggio e depaupera la Terra che viviamo. Non sono immaginari nuovi, ma percorsi radicati nei movimenti sociali che già a Genova 2001 denunciavano l’indecente sopraffazione del sistema economico nel quale viviamo; suggestioni che hanno trovato mille voci nei tanti movimenti e comitati che, intorno alla difesa dei beni comuni, hanno immaginato comunità capaci di sperimentare nuovi spazi democratici nei quali le risorse fondamentali alla vita siano parte irrinunciabile del nostro patrimonio collettivo, e come tali da tutelare dall’ingordigia di chi si ostina a considerarle come beni da privatizzare e valorizzare a fini di profitto.
Oggi, tanti nodi vengono al pettine. L’estate che si sta concludendo ci ha mostrato che il Pianeta è uno spazio finito e con risorse scarse, e che continuare a metterlo alla prova significa provocare ondate di calore, incendi, alluvioni, disastri ambientali. Il prezzo delle materie prime sale, le buste paga restano ferme mentre cresce il costo della vita, e aumenta il numero di persone senza reddito e con un salario insufficiente. La guerra, mai cancellata dal mondo, torna a bussare anche alle nostre porte, e milioni di persone sono costrette, per evitare le bombe o per ragioni economiche, climatiche, politiche e sociali, a fuggire dalle proprie case. L’accesso al cibo, all’acqua e all’energia, che per troppo tempo nelle nostre ricche città abbiamo dato per scontato per larga parte della popolazione, è oggi in discussione come lo è sempre stato nei territori sfruttati da un sistema economico che non ricerca il benessere di tutte/i, ma la ricchezza di alcune/i.
È per queste ragioni che ‘convergere per insorgere’ è la strada che (passando anche per la manifestazione del 22 ottobre a Bologna) oggi abbiamo davanti per agire la scommessa di cambiare sistema. Non c’è transizione ecologica e non ci sarà un Pianeta salvato dalla catastrofe climatica laddove i diritti, la dignità e la felicità di ogni essere umano non siano certi. E non c’è lavoro dignitoso in un Pianeta nel quale non c’è cibo, acqua ed energia per tutte e tutti, e in cui il sistema economico che causa il riscaldamento globale è lo stesso che sfrutta miliardi di persone e rifiuta le diversità e l’unicità di ogni essere umano.
Convergere, da questo punto di vista, non significa sommare rivendicazioni complementari, costruire alleanze o piattaforme, mettere insieme ‘per fare massa’; vuol dire assumere che ogni nostra vita non è la semplice somma delle cose che caratterizzano la nostra quotidianità, ma un insieme integrato e simbiotico nel quale lavoro, tempo libero, reddito, contesto ambientale, qualità degli spazi che viviamo e relazioni sociali fanno un tutt’uno.
È questo che noi chiamiamo ‘giustizia climatica’: vogliamo un Pianeta in cui vivere felicemente e serenamente, nel quale tutte e tutti possano trovare il proprio spazio, e dove nessuna/o abbia il privilegio di arricchirsi infinitamente sulle spalle di tante/i devastando il territorio che viviamo. Non è chiedere troppo: è rivendicare futuro.