COP27 – ovvero la ventisettesima conferenza sul cambiamento climatico promossa dalle Nazioni Unite – si è conclusa da pochi giorni in Egitto e, secondo molte/i osservatrici e osservatori, ha rappresentato l’ennesimo fallimento. Nessun impegno sostanziale, infatti, è stato assunto per affrontare le cause del cambiamento climatico, mentre i Paesi più ricchi sembrano aver accettato il principio che debbano finanziare – anche se le regole devono ancora essere discusse – un fondo per compensare le perdite e i danni subiti dai Paesi maggiormente esposti alle conseguenze del riscaldamento globale.
Lo stesso segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha affermato che «dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questo è un problema che questa COP non ha affrontato. Un fondo per perdite e danni è essenziale, ma non è una risposta se la crisi climatica spazza via dalla mappa un piccolo Stato insulare o trasforma un intero Paese africano in un deserto. Il mondo ha ancora bisogno di fare un passo da gigante in termini di ambizione climatica. Per avere qualche speranza di mantenere gli 1,5° C, dobbiamo investire massicciamente nelle energie rinnovabili e porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili».
D’altra parte, suona sinistro che la conferenza internazionale che deve discutere le misure necessarie per garantire all’umanità un futuro si sia svolta in un Paese che non riconosce il diritto di manifestare, e che – a Bologna lo sappiamo bene – arresta arbitrariamente chi potrebbe mettere in discussione lo status quo. Così come è singolare che la prossima conferenza – COP28 – sia ospitata dagli Emirati Arabi Uniti, una monarchia assoluta la cui ricchezza è fondata sul gas e sul petrolio.
In ogni caso, parlare di fallimento è problematico. Perché un fallimento si ha quando si persegue un obiettivo, ma non lo si raggiunge. Ma siamo sicure/i che le migliaia di delegazioni che ogni anno raggiungono le COP su jet privati siano lì per concordare le azioni indispensabili per garantire la transizione climatica? Se così fosse, dovremmo vedere in decine di Paesi politiche radicalmente diverse da quelle che sperimentiamo ogni giorno, e che vediamo nel nostro stesso territorio, dove il governo approva nuove trivellazioni in Adriatico, mentre la Regione vuole rigassificatori, autostrade, poli logistici, cementificazione degli ambienti naturali.
Il punto è che nessun governo sta adottando le azioni necessarie per affrontare le cause del riscaldamento globale, e lobby economiche e industriali continuano a definire i contenuti e gli obiettivi dei summit internazionali su queste tematiche, così come condizionano le scelte di governi e amministrazioni locali. Come vediamo da 27 anni, le COP sono il momento in cui i governi provano per alcuni giorni a indossare un abito verde, nel goffo tentativo di dimostrare che le loro politiche quotidiane possono essere compatibili con la salvaguardia ecologica del Pianeta; un tentativo smentito dalla scienza, dai fenomeni naturali e dai dati che dimostrano come, di anno in anno, le conseguenze del riscaldamento globale si stiano aggravando.
E allora, non parliamo di fallimento, perché nessuna/o ha fallito. I governi portano avanti i propri obiettivi, che sono legati alla tutela degli interessi delle grandi multinazionali del fossile, al sistema economico internazionale basato su profitto e diseguaglianze, e all’uso della Terra come risorsa da sfruttare e ‘valorizzare’. COP27 non ha fallito, ha semplicemente confermato che non ci sarà giustizia climatica attraverso percorsi istituzionali che vedano nei governi e non nei popoli gli attori primari. Chi affermava ‘cambiare sistema, non il clima’, questo lo aveva ben chiaro: ed è su questa strada, difficile ma indispensabile, che dobbiamo continuare a costruire riflessioni, convergenze, mobilitazioni.