In giorni in cui la pioggia torna a cadere sui nostri territori che, ancora una volta, si dimostrano fragili, pubblichiamo un approfondimento sulle alluvioni proposto da Alessio Ferrero, ingegnere ambientale.
Cos’è un’alluvione?
Nelle ultime settimane i giornali, le TV e i social sono stati inondati dalla questione del rischio alluvionale, spesso però condito con falsi miti, polemiche sterili e pretestuose, e visioni mono-tematiche.
L’obiettivo di queste righe è provare a fornire una prospettiva più ampia, complessa e complessiva. Per farlo, la proposta è di partire dalla base: che cos’è un’alluvione?
La domanda, in realtà, non è banale. Le alluvioni sono un fenomeno del tutto naturale, che deve poter avvenire per consentire la normale evoluzione degli ambienti fluviali. Fin dalle elementari si studia appunto che le pianure alluvionali (come la Pianura Padana) sono state formate, nel corso di ere geologiche, proprio dall’azione dei corsi d’acqua, che erodono il materiale nelle valli, quando sono veloci e carichi di energia, e lo depositano poi in pianura, dove perdono velocità.
Per capire le alluvioni è fondamentale innanzitutto svestirsi di alcune convinzioni diffuse ma che si sono dimostrate sbagliate dalla ricerca svolta dalla comunità scientifica; serve quindi cambiare il punto di vista con cui si affronta il problema. Ed è dall’uso di quest’ultima parola, “problema”, che è importante partire per cambiare l’approccio.
Le alluvioni sono un problema? In realtà no, perché sono appunto, di base, un fenomeno normale. È la relazione tra la società umana e le alluvioni ad essere problematica. A volte, infatti, un equilibrato rapporto tra alluvioni e società si è rivelato utile, e addirittura vitale: basti pensate agli antichi Egizi che, grazie alle inondazioni del Nilo e al conseguente deposito di limo fangoso e fertile, potevano coltivare le aree vicine al grande fiume e sostenere la propria alimentazione.
La gestione del territorio operata negli ultimi secoli ha però inasprito questa relazione tra società e fiumi, andando a intensificare in maniera considerevole quello che oggi definiamo rischio alluvionale (o idraulico), e rendendo così necessarie strategie per abbattere tale rischio.
Il rischio alluvionale
Per difendersi dal rischio alluvionale bisogna prima di tutto identificare i fattori che lo determinano. Quando si parla di calamità naturali (ma anche antropiche) il rischio complessivo dipende infatti da due elementi:
- la pericolosità, ossia la probabilità che un certo fenomeno, potenzialmente pericoloso, si verifichi;
- l’impatto che suddetto fenomeno potrebbe generare.
Nel caso specifico delle alluvioni, la pericolosità dipende in prima battuta da fattori naturali, come l’estensione del bacino, la dinamica del fiume, il micro-clima. Ad esempio, i torrenti minori esondano più facilmente con precipitazioni brevi e intese, mente i grandi fiumi come il Po esondano quando la pioggia insiste per molto tempo e in diverse zone; la diversa probabilità di accadimento di queste tipologie di precipitazione influisce sulla probabilità di accadimento dell’alluvione che ne deriva, e influisce quindi sul rischio complessivo.
La pericolosità dipende poi da dove mi trovo: la probabilità di finire coi piedi a mollo cambia infatti, come è anche più facile intuire, a seconda della distanza dal corso d’acqua e dalla quota a cui ci si trova rispetto ad esso. In Italia, lo strumento principale che determina queste “fasce di esondazione” è il PGRA (Piano di Gestione del Rischio Alluvioni), che mappa la pericolosità idraulica in tutta la penisola.
La pericolosità può però essere influenzata, ed è influenzata in questo momento storico, anche da alcune attività antropiche, come la cementificazione e le emissioni di gas climalteranti (CO2, metano). La cementificazione, infatti, impedisce all’acqua di infiltrarsi nel terreno, facendola correre più velocemente verso il corso d’acqua e incrementando così l’onda di piena. Il riscaldamento globale antropico (che per la sua natura particolarmente impattate è più corretto chiamare crisi climatica) altera il movimento e la temperatura dei flussi d’aria nell’atmosfera, generando precipitazioni più intense e frequenti, aumentando quindi la probabilità che si verifiche quel certo evento meteorologico estremo che provoca l’alluvione.
Il secondo elemento del rischio, ossia il potenziale impatto, è l’altro grande protagonista. Esso dipende sia da quante persone, edifici e attività sono presenti in una zona di potenziale esondazione, sia dalla capacità di risposta, adattamento e recupero di tali insediamenti. La capacità gestire e superare l’evento è un elemento chiave, e potrebbe essere riassunto in una parola: resilienza. L’opposto della resilienza è la vulnerabilità, e saperla quantificare in un dato contesto territoriale è fondamentale per comprendere e prevedere il potenziale impatto.
Gestire e ridurre il rischio
Avendo ora più chiari gli ingredienti del rischio, diventa anche più facile capire come gestire la ricetta generale per evitare di cucinare una pietanza mortale.
La pericolosità deve essere gestita secondo due strategie principali:
- intensificare e accelerare gli sforzi nazionali e internazionali abbattere drasticamente e in fretta le emissioni di gas climalteranti per cercare di stare al di sotto di 1,5° C di innalzamento della temperatura globale, in modo da non aumentare ulteriormente l’intensità e la frequenza di quegli eventi estremi che provocano alluvioni (e, in generale, mantenere il sistema-Terra in una condizione in cui la vita umana non sia totalmente sconvolta);
- gestire i territori in maniera più consapevole e sistemica rispetto a quanto fatto fino ad ora, naturalizzando i corsi d’acqua, de-cementificando le superfici e adottando una strategia di bacino per le opere idrauliche, in modo da rendere meno devastante la risposta del corso d’acqua all’evento di pioggia.
Il potenziale impatto può essere ridotto applicando varie strategie, a seconda del tipo di vulnerabilità (strutturale, sociale, gestionale, economica) che si vuole ridurre:
- de-urbanizzare le aree a rischio idraulico più elevato e più densamente abitate, in modo da ridurre il numero di persone potenzialmente in pericolo;
- delocalizzare in zone sicure gli edifici strategici e dove si trovano persone più vulnerabili e i cui tempi di evacuazione sono potenzialmente più elevati, come scuole, ospedali, case di cura;
- rendere le case “a prova d’alluvioni”, adottando il metodo palafitta per i nuovi edifici (che non devono incrementare il consumo di suolo), non usando i piani terra e interrati negli edifici già in uso e proteggendoli, dove necessario, con paratie stagne, in modo da rendere l’arrivo dell’onda di piena sostanzialmente priva di impatti significativi per le persone che abitano in quelle case;
- pianificare campagne di informazione mirate e puntuali, in modo da rendere le persone che vivono in fascia di esondazione perfettamente consapevoli dei rischi e in grado di leggere una allerta meteo e adottare misure di autoprotezione, andando così a creare quella cultura del rischio che manca;
- tenere in conto e risolvere le vulnerabilità economiche di un certo contesto, in quanto le persone in ristrettezza economica soffrono impatti più ingenti e duraturi rispetto a chi si trova in una condizione più agiata e privilegiata, in particolare perché hanno una maggiore difficoltà a riprendersi dai danni economici dell’evento;
- migliorare sempre di più i sistemi previsionali da un lato, e le strategie di gestione e soccorso dall’altro, tra cui la diffusione dei piani di Protezione Civile, spesso non conosciuti dalla popolazione e talvolta addirittura dagli amministratori.
- monitorare le vulnerabilità sociali, dato che le persone marginalizzate (come migranti e minoranze) hanno a volte una minore conoscenza del territorio in cui vivono, della lingua con cui vengono comunicate le allerte e le misure di autoprotezione, e in generale una maggiore difficoltà ad entrare nel sistema di welfare che consente un recupero post evento;
- tenere in conto di tutti gli effetti indiretti e più a lungo termine di un evento, come gli effetti sulla salute mentale e sullo stress, sulla fiducia nella società e nel sistema di prevenzione, sui rapporti familiari e interpersonali, che rientrano in ambiti di difficile valutazione economica e, per questo motivo, tenuti in poca considerazione dalle strategie attuali.
Dall’elenco appena descritto, molto parziale e semplificato, risulta evidente come la soluzione sia un insieme di soluzioni, che abbracciano vari ambiti, dall’ingegneria all’urbanistica, dall’inclusione sociale alla psicologia, dalla pianificazione territoriale alla logistica, dalla mediazione culturale ai processi di decisione partecipata.
A proposito di clima e alluvioni
Spesso capita di sentir dire “ma cosa c’entra il clima? Le alluvioni ci sono sempre state!”. È vero, le alluvioni, come detto prima, sono un fenomeno che avviene da ere geologiche. Ciò che cambia è la frequenza e l’intensità con cui si verificano in una pianeta più caldo.
L’aria più calda è infatti in grado di ospitare una maggiore quantità di acqua, le nuvole si ritrovano ad essere quindi maggiormente cariche di acqua e a generare precipitazioni più intense.
Inoltre, come anticipato prima, si modificano i flussi delle correnti atmosferiche; in particolare si registra un rallentamento delle “correnti a getto”, che corrono da Ovest verso Est attorno a tutto il globo e che, creando l’alternanza tra alta e bassa pressione, portano il “bello” e il “brutto” tempo. La conseguenza di questo rallentamento è che i periodi di siccità e i periodi di pioggia durano più a lungo, creando problematiche per l’agricoltura da un lato e criticità per i fiumi dell’altro.
La pagina di divulgazione “Chi Ha Paura Del Buio” ha usato una metafora azzeccata per spiegare la relazione tra crisi climatica ed eventi estremi: la lotteria climatica. Si può immaginare di avere un sacchetto contenente tante biglie bianche, che rappresentano condizioni meteorologiche non critiche, e una pallina rossa, che rappresenta un evento estremo e rischioso. In una condizione di clima non alterato la pallina rossa è una sola, e ogni tanto viene estratta; invece, nella condizione di clima alterato, verso cui stiamo andando, le palline rosse diventano 3 o 4, o anche di più, e diventa quindi molto più probabile “estrarre” un evento estremo.
Argini sì, argini no?
Tornando ai sistemi di difesa dalle alluvioni, è importante spendere due parole sugli argini, anche qui con l’idea di cambiare un poco il punto di vista e fornire una visione più ampia.
I sistemi di arginatura sono uno dei primissimi metodi escogitati per provare a difendersi dal rischio alluvionale, in uso dalla società umana ormai da millenni, e sviluppati nel corso dei secoli.
Gli argini iniziano però a costituire un problema quando se ne fa un uso spropositato, sistematico e non curante dalla dinamica dell’intero bacino e della dinamica fluviale nel corso del tempo.
Come funziona un argine? Sostanzialmente, evita che l’acqua dell’onda di piena finisca nelle aree ai lati del fiume (aree golenali), mantenendole così asciutte. Il problema sta nel fatto che quelle aree servivano al fiume proprio per sfogarsi e liberarsi di una certa quantità di acqua; con la presenza dell’argine l’acqua rimane nel corso d’acqua e rende così l’onda di piena ancora più intensa rispetto a prima, andando così a complicare il problema a valle. Per fare un esempio pratico, se il Po venisse arginato totalmente in tutto il Piemonte, la Lombardia e l’Emilia si troverebbero in maggiore difficoltà rispetto a prima, perché avrebbero più acqua da gestire.
Il fiume non trasporta solamente acqua, ma anche materiale solido. Anche tale materiale tende a depositarsi ai lati del corso d’acqua e nell’alveo, ed è così che si formano le pianure alluvionali, con continui processi di erosione e deposizione che modificano continuamente il corso dei fiumi. Con la presenza dell’argine questo materiale solido rimane bloccato nell’alveo e non può depositarsi ai lati; il risultato è un continuo innalzamento dei fiumi, che diventano così pensili, ossia più alti rispetto al piano campagna circostante (è questo il caso proprio dei fiumi Romagnoli).
È quindi sbagliato fare argini? Dipende. Per quanto possibile, andrebbero sempre preferite altre soluzioni che assecondano il comportano naturale dei fiumi, anziché reprimerlo, tuttavia, in ambiente urbano capita spesso di non avere molte altre soluzioni e quindi, se progettati con un occhio all’intera dinamica fluviale, in qualche specifico caso possono far parte dell’insieme di soluzioni.
Casse di espansione o di laminazione
Una soluzione tecnica alternativa agli argini, e di più recente sviluppo, è costituita dalle casse di espansione (dette anche vasche di laminazione). L’idea di base è semplice: anziché creare argini, che impediscono la dissipazione di energia e la perdita di acqua, vengono create dei piccoli bacini ai lati del fiume, in grado di immagazzinare acqua quando arriva una certa onda di piena, “alleggerendo” così il fiume e rendendo la sua piena meno intensa. In altre parole, si va ad assecondare la necessità di spazio da parte del fiume, copiando un principio naturale, e attenuando così il problema senza amplificarlo a valle, come succede con gli argini.
Anche in questo, ovviamente, ci sono delle controindicazioni. È necessario fare una valutazione di impatto e, soprattutto, è fondamentale creare un processo partecipato con la collettività che vive nel territorio. Infatti, a causa dell’elevato tasso di uso del suolo, in particolar modo in Italia, creare una vasca di espansione per dare spazio al fiume vuol dire quasi sempre togliere terreno ad agricoltori, o aumentare la possibilità che questo si allaghi durante una piena.
Dragare e pulire, tra miti e leggende
“Bisogna dragare i fiumi!”. “I fiumi non si puliscono più come una volta!”. Queste due frasi appaiono spesso nel dibattito pubblico quando si verifica una alluvione, ma nella maggior parte dei casi si fa un po’ di confusione al riguardo.
Dragare e pulire i fiumi sono due azioni ben diverse: dragare significa asportare materiale inerte (ghiaia, sabbia, ciottoli) dal letto del fiume, mentre pulire significa rimuovere rami e materiale vegetale dall’alveo.
Se si draga un fiume viene abbassato il livello del letto, e a livello intuitivo potrebbe sembrare che in questo modo possa scorrere più acqua, riducendo il rischio di alluvioni. In realtà, dragare un fiume è molto pericoloso e assolutamente sconsigliato: questa azione, infatti, modifica il profilo altimetrico del fiume, che tende ad iniziare un processo di retro-escavazione che risale il fiume, andando a creare seri problemi ai piloni dei ponti e alle sponde che si trovano anche decine di chilometri a monte, con rischio di crollo ed erosione accentuata. Modificare l’equilibrio dinamico di un fiume è molto pericoloso, perché la massa d’acqua in moto reagire a tale disequilibrio, cercandone uno nuovo.
La pulizia del fiume è invece un’operazione che non modifica il profilo del fiume, ma che si limita da un lato a facilitare il deflusso dell’onda di piena (i cespugli sull’alveo creano attrito) e dall’altro ad evitare la creazione di “tappi” di tronchi e rami tra i piloni dei ponti. Tuttavia, anche questa è una operazione rischiosa, in quanto la biodiversità che vive grazie a quella vegetazione e a quei tronchi morti può essere incredibilmente importate per l’ecosistema del territorio, ed eliminare quella biodiversità potrebbe avere effetti molto negativi. Inoltre, una pulizia “sregolata” o eccessiva, potrebbe indebolire l’apparato radicale che sostiene le sponde.
Anche in questo caso è importante guardare al problema da un altro punto di vista. Nella narrativa comune sono tronchi e arbusti che rappresentano un problema per lo scorrere dell’acqua, in particolare sotti i ponti, ma in realtà quei tronchi e arbusti sono esattamente dove, naturalmente, dovrebbe stare; sono infatti i ponti a rappresentare un problema e sarebbe più corretto intervenire su di loro, con luci e campate adeguate. è una sfumatura leggera, ma sostanziale, quella di passare il problema dall’alveo al ponte; l’alveo era infatti lì già da prima, mentre il ponte è arrivato dopo. È poi chiaro che, nella pratica, sarebbe davvero complicato nel giro di poco tempo sostituire tutti i ponti, e quindi, fatte le opportune e corrette valutazioni del rischio, della dinamica fluviale e dell’ecosistema fluviale, in qualche caso eccezionale è anche possibile procedere con una pulizia mirata dell’alveo.
Ancora una volta, però, è importante ribadire che non sono i processi fluviali a costituire di per sé un rischio, ma l’interferenza della società umana con essi, ed è in quest’ultima che vanno ricercate le soluzioni.
La visione d’insieme e di bacino
Per chi è giunto fino a qui nella lettura, dovrebbe ormai essere molto evidente come la dinamica di un fiume sia un fenomeno molto complesso e da non sottovalutare. La gestione del territorio e dei corsi d’acqua andrebbe il più possibile svolte tenendo conto dell’intero bacino idrografico, per mantenere la visione d’insieme dei processi fluviali. Tuttavia, a causa dei confini amministrativi di Province e Regioni, capita che la gestione sia frammentata e non sistemica.
Grazie alla Direttiva Europea “Alluvioni” (2007/60/CE) sono state introdotte le “Unità di Bacino”, ossia enti che si occupano di studiare, mappare e gestire i maggiori bacini idrografici. Questi enti, purtroppo, sono molto limitati nella loro azione, ma una loro incentivazione potrebbe rappresentare un punto di svolta importante nel cambio di mentalità e di visione che serve per gestire il rischio alluvionale.
Conclusioni e invito
In queste poche pagine si è provato a fornire alcune prospettive più sistemiche riguardo al rischio alluvionale. Chiaramente è possibile che chi leggerà non si troverà d’accordo con alcune tesi esposte, dato che alcuni temi sono di recente ricerca; l’invito è quello di iniziare il dialogo e aprire il dibattito, perché di questo tema si parla poco, anche e soprattutto confrontandosi su idee diverse, perché è dal confronto e dai processi partecipati che si possono ottenere miglioramenti.