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Liberare le città dalle auto

  • Categoria dell'articolo:Europa
  • Tempo di lettura:3 minuti di lettura

Ancora un’alluvione devastante. Questa volta a Valencia, in Spagna, con decine e decine di vittime. La crisi climatica dispiega i suoi impatti distruttivi, facendoci pagare un conto pesantissimo.

In queste ore sui media mainstream e sui social-network rimbalzano le immagini di migliaia di auto accatastate l’una sull’altra. Pesano tonnellate, ma l’acqua le ha trascinate, sospinte, accumulate. Come se fossero scatoloni di cartone. Solo che ognuna di quelle scatole di metallo e plastica costa migliaia di euro. E se per alcuni l’auto di lusso è il simbolo da ostenare per esibire il proprio status sociale (e persa una se ne compra un’altra), per la gran parte delle persone l’auto è un’esigenza indotta e un debito pluriennale. Quell’andare a lavorare per comprarsi l’auto per andare a lavorare che tante volte abbiamo sentito ripetere. Solo che oggi, come ha scritto il Collettivo di Fabbrica GKN, siamo “travolti dall’auto, bloccati nell’auto, licenziati dall’auto, indebitati per l’auto, affamati per l’auto”. E quell’auto, da un momento all’altro, diventa rottame.

Nei decenni passati sono state dismesse ferrovie e linee tramviarie per lasciare la ribalta alle quattro ruote, e ancora oggi investimenti infrastrutturali miliardari sono dedicati al trasporto privato. Solo in Emilia-Romagna sono 7 i miliardi di euro destinati  all’allargamento della autostrade, Passante di Bologna incluso. Comprati un auto e potrai andare a lavorare, accompagnare i figli a scuola, raggiungere l’ospedale. Con il risultato che, oggi, le nostre città sono enormi parcheggi a cielo aperto. Dove dire a un bimbo di raggiungere la propria scuola in bici è un azzardo.

Quell’auto, per tante/i, significa mutui e debiti. Significa rinunciare a qualcos’altro: per esempio, a migliorare la propria condizione abitativa, a viaggiare, a partecipare ad eventi culturali o a percorsi formativi, a comprare del cibo di migliore qualità. Perché l’auto porta via una parte consistente della busta paga: migliaia di euro che potrebbero essere spesi diversamente. Poi, se le condizioni metereologiche vogliono che sia proprio la zona in cui vivi quella colpita dalla prossima alluvione, restano i debiti, ma scompare il mezzo con cui muoversi. Ha ancora senso pensare alle città come parcheggi? Ha ancora senso progettare infrastrutture per la mobilità individuale, invece di rafforzare quella collettiva, facendo al contempo spazio a pedoni e biciclette?

L’abbiamo scritto altre volte: la mobilità collettiva e sostenibile non rappresenta un’opzione, ma uno dei diritti sui quali fondare il benessere collettivo e la qualità delle nostre vite.  Ripensare gli spazi urbani, oggi, significa non soltanto risagomare i canali tombati dei torrenti, ma anche liberare le strade dal monopolio dell’auto. Perché solo così potremo fare spazio alle infrastrutture ecologiche e sociali indispensabili per vivere nella crisi climatica, come boschi,aree verdi, zone per trattenere e gestire l’acqua: desigillare suolo e forestare le città sono i verbi che raccontano il futuro dello spazio urbano. Il nostro futuro.