In una giornata – il 4 novembre – pervasa di retorica militare, abbiamo appeso uno striscione contro la guerra e la corsa agli armamenti nel parco del Barone Rampante, a Bologna. Un luogo non casuale, perché proprio lì sotto scorre, tombato, il torrente Ravone, che poche settimane fa ha esondato in più punti portando fango nelle case di migliaia di bolognesi.
Quanti interventi di cura del territorio si potrebbero fare con trentadue miliardi di euro? Quanti risarcimenti per i danni subiti dalle alluvioni potrebbero essere coperti? Trentadue miliardi di euro è la cifra che il governo italiano intende investire in spese militari nel 2025. Di questi, ben 13 miliardi sono destinati all’acquisto di nuovi armamenti.
Avremo carri armati scintillanti, caccia in volo, fregate in mare. Ma non le strade per raggiungere scuole e ospedali dal nostro Appennino. Avremo missili e munizioni, ma non le pale per pulire dal fango le nostre cantine. Mentre il Pianeta sperimenta il devastante impatto della crisi climatica, i governi – incluso il nostro – passeggiano tra i banchi del mercato degli armamenti, e spendono come se non ci fosse un domani. Mentre i soldi per curare il territorio non ci sono.
Congiuntura di guerra è anche questo. Da una parte conflitti che lacerano territori, portando morte e distruzione, e dall’altra aziende multinazionali che si siedono su una montagna di soldi. Perché nella guerra c’è sempre chi paga – tante e tanti – e chi ci guadagna – pochi. Di guerre e alluvioni si muore, ma i governi investono in armi che uccidono invece che in infrastrutture ecologiche che tutelano.
Ogni conflitto armato provoca devastazioni ambientali incalcolabili (basti pensare che, secondo alcuni studi, nel 2022 gli apparati militari sono stati responsabili del 5,5% delle emissioni climalteranti), e nell’ultimo anno, globalmente, sono stati investiti 2,4 trilioni di dollari in armamenti: risorse sottratte agli sforzi necessari per la giustizia climatica. Ancor di più, quello che viviamo è un regime di guerra nel quale le ecologie, le vite, i diritti, le libertà, vengono messe in secondo piano di fronte a uno sforzo bellico che fa di ogni voce dissenziente un potenziale nemico.
In una giornata – il 4 novembre – in cui la retorica della guerra pervade i discorsi istituzionali, affermare che l’unica guerra da finanziare è quella alla crisi climatica significa indicare con chiarezza quali sono le nostre priorità collettive: non una retorica bellica che si nutre di nuovi armamenti e soldati in marcia, ma un cambiare tutto ora che rifiuta l’idea che i profitti possano nascere dalla distruzione, come avviene per esempio con le guerre e l’estrazione di combustibili fossili. Chi governa continua a tutelare i profitti delle imprese che si arricchiscono con armamenti e cementificazione; ovvero i profitti di chi guadagna sulle sofferenze – e troppo spesso sulle morti – di tante e tanti. È per questo che non esiste una ‘transizione dall’alto’: cambiare tutto è l’unica strategia per costruire giustizia climatica.
Per approfondire il dibattito in corso a Bologna sulla congiuntura di guerra, visita il sito https://congiunturadiguerra.blog/