Chi dovesse viaggiare per la penisola iberica difficilmente noterebbe la presenza dell’acqua in modo così evidente come avviene invece nelle terre di Barroso, tra le montagne del Nord del Portogallo, vicino al confine con la Galizia. Questo non solo per la presenza di due corsi d’acqua, il fiume Covas e il suo affluente, il Couto (oggi entrambi incredibilmente in forma, grazie alle piogge di quest’anno), ma anche per la rumorosa presenza di canali, rigagnoli e fontane che costantemente fanno sentire lo scorrere di un’acqua che, come si può sentire ripetutamente dalle persone del luogo, “è acqua da bere”. Si tratta infatti di uno dei motivi di orgoglio di un luogo in cui la gestione idrica è stabilita in forma comunitaria da alcuni abitanti che, nel periodo estivo, decidono di volta in volta verso dove indirizzare le acque mediante un sistema idraulico semplice e ben visibile ai margini delle strade.
Queste sono solo alcune delle particolarità di Covas do Barroso, un paese con circa 200 abitanti che dal 10 al 15 Agosto, per il terzo anno consecutivo, ha ospitato un accampamento di attivisti e attiviste giunte a protestare contro il progetto di costruzione di miniere di litio nella zona. Appena fuori dal centro abitato, infatti, è già possibile vedere la sponda del Covas in cui la Savannah Resources prevede di installare uno dei suoi impianti, bloccando il fiume sottostante e sfruttandone le acque. Lo stesso scenario interessa anche il vicino paese di Romainho, mentre a Montalegre, distante solo pochi chilometri, a tentare di avviare le sue attività di estrazione è l’agenzia portoghese Lusorecuros.
La storia di questi progetti nasce poco dopo il 2000, quando la presenza di litio in zona era poco più che un’ipotesi, ma è negli ultimi anni che si assiste ad un’accelerazione, in particolare da quando la cosiddetta “transizione ecologica” si è imposta nel dibattito politico e le istituzioni europee hanno cominciato a riflettere sulla dipendenza europea da fonti esterne in termini di risorse ed approvvigionamento energetico. La pandemia, prima, e la guerra in Ucraina, poi, hanno infatti spinto l’Europa a cercare risorse in modo sempre più insistente sia al suo interno che all’estero e così, nel Settembre 2022, Ursula Von der Leyen dichiarava che il litio era la risorsa strategica del futuro e solo poche settimane fa annunciava un investimento di 45 miliardi di euro per l’estrazione di materie prime nei Caraibi e in America Latina, in particolare nel cosiddetto “triangolo del litio” tra Argentina, Cile e Bolivia. Per quanto riguarda l’Italia, il Ministro Urso ha già rilasciato diverse dichiarazioni sulle possibili miniere di litio e terre rare in Piemonte, Lazio e Sardegna.
Ciò che si ventila è dunque un processo sia interno che esterno: da una parte, i paesi che storicamente sono già stati marchiati da secoli di colonialismo si confermano nuovamente luogo di saccheggio, dall’altra, progetti di ispezioni e discorsi eco-friendly spianano il terreno ad una stagione di estrattivismo all’interno dei confini europei, con conseguenze che interessano chiunque e non solo chi abita nei territori immediatamente coinvolti. Chiaramente chi governa sa di farlo in un momento storico in cui gli effetti del surriscaldamento globale si fanno sentire in modo sempre più diffuso e quindi anche in Portogallo, come altrove, si parla di uno sfruttamento “controllato” delle risorse, di “piantare nuovi alberi” e di “mitigazioni”. Tutto questo non è stato sufficiente a convincere la comunità che radunata a Barroso.
Nelle proteste è presente innanzitutto un elemento legato alla specificità del luogo, patrimonio FAO non per la bellezza dei paesaggi, bensì per una forma di allevamento comunitario in territori (i “baldios”) vincolato alle decisioni di una “Assembleia de Compartes” che riunisce gli allevatori della zona. Inoltre, come emerso dagli incontri che hanno animato l’accampamento, le narrazioni con cui i rappresentanti istituzionali (e, in alcuni casi, accademici) si stanno dichiarando a favore dei progetti delle miniere raccontano di una presenza di litio assolutamente abbondante, quando i dati sono tutt’altro che chiari e soprattutto parlano di una quantità pari al 6% rispetto al totale della materiale che andrebbe estratto: il restante 94% andrebbe quindi rigettato nelle acque della zona, andando a contaminare non solo i corsi d’acqua del luogo, ma anche fiumi di ben più ampia portata, ossia il Tâmega e il Douro, il fiume noto ai turisti per il fatto di attraversare la città di Porto prima di sfociare nell’Atlantico.
Proprio quello della quantità dell’acqua è un ulteriore aspetto determinante rispetto alla pericolosità del progetto delle miniere, specialmente se inserito all’interno di un contesto come quello portoghese e, più in generale, iberico, dove la situazione è catastrofica. La quantità di acqua necessaria per la miniera di Covas do Barroso è enorme: secondo un reportage di Tiago Carrasco del 2019 sono 60mila metri cubi necessari per l’avvio dell’impianto e 45mila, al mese, per mantenere l’attività.
Se ora questo potrebbe non essere fonte di preoccupazione, vista l’annata particolarmente piovosa, l’anno scorso la situazione era differente. Ad Agosto, in Galizia, dove il Tâmega ha origine, lo scenario era così allarmante da spingere le amministrazioni galleghe a politiche di limitazioni nell’uso dell’acqua che hanno interessato circa 350mila persone. Pochi chilometri più a occidente, il fiume Lima, anch’esso di origine galiziana, lasciava in vista i suoi margini sia nella sua parte spagnola che in quella portoghese, mentre sul confine tra le due nazioni, l’invaso della diga di Alto-Lindoso toccava il 30% della sua capacità facendo riaffiorare il paese-fantasma di Aceredo, coperto dalle acque dal 1992, anno di inaugurazione della diga.
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Situazione idrica nell’estate 2022 e nell’estate 2023
Ma c’è un altro elemento allarmante: i membri dell’Observatorio Ibérico da Mineração presenti all’accampamento hanno infatti fornito un quadro ampio dei diffusi casi di illegalità da parte delle aziende minerarie nella penisola iberica. Un fenomeno che sta interessando Barroso è la mancanza di trasparenza specialmente per quanto ha riguardato la recente presentazione del piano di compatibilità ambientale, avvenuta per la seconda volta a Marzo, dopo che una prima versione del piano era stata bocciata. In questa seconda occasione, a differenza di quanto normalmente previsto dalle procedure, attivisti e attiviste si sono inizialmente visti riconoscere un tempo estremamente breve (10 giorni) per visionare tutti i materiali e solo dopo un ulteriore ricorso hanno potuto conquistare giorni preziosi e produrre nuova documentazione contraria all’installazione delle miniere.
Questo processo ha fatto sì che il progetto delle miniere appaia ora in una fase stagnante, eppure il contesto generale rivela un’urgenza del tutto palpabile. Si dice infatti che il litio di Barroso potrà far funzionare le automobili elettriche di tutta Europa, secondo uno ritornello che, come chiarito da attivisti e attiviste provenienti da diversi paesi del continente e non solo, è assolutamente ricorrente e del tutto funzionale ad una narrazione secondo cui è necessario fare dei “piccoli sacrifici” se vogliamo la cosiddetta “transizione ecologica”.
E così, mentre i “piccoli sacrifici” devastano ecosistemi preziosi, l’industria delle automobili prova a rinascere con l’ennesimo colpo di coda, decisa a immettere i suoi prodotti “green” nelle strade che scorrono sotto le nostre case, giustificando nuove colate d’asfalto. Diventa così evidente che la transizione in agenda non sia “ecologica”, bensì esclusivamente “tecnologica” e che sia incompatibile con il mondo e le comunità che lo abitano.
Ma affinché ciò sia visibile occorre attraversare i contesti e seguire il fiume delle narrazioni: quelle
che partono dalle comunità in lotta contro l’estrattivismo, che proseguono con la vita di chi occupa
le fabbriche investigando un nuovo modello di sviluppo, e arrivano a chi combatte il proliferare di grande opere, strade e autostrade. Specialmente quelle che vengono spacciate come il «simbolo della transizione
ecologica».