Giovedì scorso abbiamo partecipato all’assemblea sull’Aeroporto Marconi, convocata nei campi sportivi della Pescarola per discutere l’ormai insostenibile situazione di chi vive nel quartiere. Le due ore di interventi sono state, per quante/i hanno partecipato, l’occasione per toccare con mano la quotidianità di chi abita lungo le rotte che gli aeromobili utilizzano per decollare e atterrare. L’impossibilità stessa di parlare, durante il sorvolo, è il segno tangibile di quanto sia alto l’impatto rumoroso degli aerei sulla quotidianità di chi qui vive, lavora, studia, pratica attività sportive o sociali.
Negli interventi che si sono alternati abbiamo sentito la rabbia di chi ha visto crescere a dismisura il numero di voli sulle proprie teste. È il frutto amaro di un modello ormai consolidato non solo nella nostra città, che vede nella crescita continua dei numeri – più turisti, più voli, più fatturato, più merci che si spostano – l’indicatore esclusivo sui cui misurare il successo o l’insuccesso. Allo stesso tempo, come avviene per altre vicende che riguardano Bologna, poco si sa dell’impatto sanitario di questa infrastruttura sulla popolazione, e sul contributo a malattie e decessi legato all’inquinamento sia acustico sia atmosferico.
Le rivendicazioni di chi vive nel quartiere sono irrinunciabili: come affermano tante altre comunità locali – tra cui, per citare i più conosciuti, i NoTav della Valsusa – le opere infrastrutturali non possono essere costruite e operare a discapito di chi vive un territorio. Non si tratta di trovare un equilibrio, ma di decidere cosa viene prima: la quotidianità di decine di migliaia di persone, o un volo di 50 minuti da Bologna all’Isola d’Elba?
Ma la vicenda rappresenta anche l’ennesima cartina di tornasole di un problema sistemico, che ha a che fare con gli interessi in gioco: valgono di più la salute e la quotidianità degli abitanti del presente e del futuro, o gli investimenti garantiti da chi nelle infrastrutture della mobilità vede nuovo profitto? Ha detto bene chi ha affermato che l’aeroporto deve essere al servizio della città, non la città al servizio dell’aeroporto; e questa è una massima che dovrebbe valere da bussola per qualunque infrastruttura, perché se il cambio degli infissi proposto dalla società aeroportuale agli abitanti del quartiere è una porcata, la stessa proposta di Società Autostrade a coloro che vivono lungo il tracciato del Passante di Mezzo non può essere una compensazione.
Le prime conseguenze del riscaldamento globale le stiamo già patendo, e gli scienziati ci hanno annunciato un futuro fosco. Aeroporto, People Mover, Passante di Mezzo, autostrada A13, costruzione di nuovi distributori di carburante in aree agricole, consumo di suolo per nuovi poli logistici e commerciali, sono tutte facce della stessa medaglia: quella che parla di ‘Motor Valley’, che apre le braccia alle compagnie low cost, che pensa che l’economia non possa essere seconda alla transizione climatica e che, soprattutto, non mette in discussione un modello nel quale il PIL continua a rappresentare il punto di riferimento con il quale misurare il benessere collettivo.
Non sapremo affrontare né la crisi climatica né le diseguaglianze sociali fino a quando non costruiremo pensieri capaci di rispondere alle tante sfide poste da questo modello economico e sociale: le cause che rovinano la vita di chi abita vicino all’aeroporto sono le stesse di chi sente sferragliare il People Mover, di chi viene espropriato per allargare il Passante di Mezzo, e di chi, in aeroporto o nei sistemi della logistica, lavora ogni giorno. È per questo che non possono esserci mezze misure: è tempo di fermare la narrazione delle grandi opere e l’inganno delle mitigazioni e delle compensazioni, ridimensionando quelle già esistenti che minacciano la salute e il futuro dei nostri territori e di coloro che li abitano. In gioco, infatti, c’è il nostro futuro.