Non sono passati decenni. Appena 500 giorni. Il territorio devastato dalle alluvioni del maggio 2023 è di nuovo sott’acqua. L’Appennino frana. È normale dover vivere con l’ansia ogni volta che piove?
Nelle ultime 48 ore sui nostri territori è caduta tantissima acqua. Più – dicono le statistiche – di quanta ne sia caduta nell’evento catastrofico del 2023. Ma non sono piogge eccezionali. Non più: i meteorologi, infatti, ci ricordano – non da oggi – che dobbiamo abituarci. Che nell’assetto climatico figlio del riscaldamento globale, questi eventi fanno e faranno parte della nostra vita. Non passeranno cento anni tra una volta e l’altra, come succedeva in passato. Parliamo di mesi, al massimo di pochi anni.
Abbiamo la voglia – e le forze – di gettare in discarica tutto ogni pochi mesi? Di ridipingere le pareti, ri-arredare le stanze, sostituire le automobili? E, magari, come è successo un anno fa, piangere amici e parenti?
Non possiamo fermare le piogge. Il riscaldamento globale è un dato di fatto, che produce effetti devastanti sui territori che viviamo. Questi ultimi, nei secoli sono stati vissuti e progettati per convivere con fenomeni che si ponevano su una scala radicalmente minore di quella che viviamo oggi e avevano un tempo di ritorno più dilatato. Eccezionale, quindi, non è l’acqua che cade sui crinali appenninici e scende a valle, ma l’ottusa presunzione di chi – ancora ieri, per la verità, nell’assemblea di Confindustria – afferma che le scelte orientate ad affrontare gli effetti della crisi climatica debbano essere mitigate per non intralciare l’economia.
Quanta e quale ricchezza si perde a ogni catastrofe? E, soprattutto, chi la perde? Come abbiamo scritto altre volte, nelle acque alluvionali non siamo tutte/i sullo stesso gommone: c’è chi perde la propria unica abitazione e non sa dove andare, e chi deve rinunciare a una delle tante auto di lusso presenti nel proprio garage. È una differenza enorme, che pone il problema delle priorità. Dopo l’alluvione del 2023, l’assemblea popolare che si è riunita in Piazza del Nettuno a Bologna chiedeva la moratoria sulle grandi opere che contribuiscono alla crisi climatica. Una richiesta che, oltre al valore legato alla rinuncia a infrastrutture che consumerebbero ulteriore suolo, ha a che fare con la scelta necessaria del dove, oggi, è urgente investire le nostre risorse collettive.
I luoghi che viviamo non sono adatti alla nuova configurazione climatica: semplicemente, non reggono le piogge. Da una parte, decenni di cementificazione li hanno resi fragili; dall’altra, le precipitazioni hanno raggiunto una scala diversa, impensabile in passato. Le frane e le piene di questi giorni ci ricordano che sì, il territorio emiliano-romagnolo ha bisogno di grandi interventi infrastrutturali, ma blu e verdi: ridare lo spazio sottratto alle acque; curare i versanti appenninici, perché questi non franino sotto i piedi degli abitanti dei territori collinari, e perché siano in grado di trattenere e frenare il corso delle acque quando piove tanto, tutelando così le pianure soggette a inondazioni; ripensare il sistema idraulico del territorio, a monte come a valle; riorganizzare i centri abitati, le città e lo spazio pubblico, trovando forme infrastrutturali di convivenza con le acque; dare spazio alla vegetazione, per rafforzare la capacità delle terre che viviamo di affrontare precipitazioni consistenti.
Diciamocelo chiaramente: è più importante avere una corsia in più sull’autostrada A14, o impedire che tante delle nostre case vadano sott’acqua ogni pochi mesi? Un nuovo impianto di risalita, o dei boschi capaci di frenare la corsa a valle delle acque? Viadotti negli alvei dei torrenti, o aree in cui le acque possano tracimare senza sconvolgere le vite di decine di migliaia di persone? Finora, ci è stato detto che possiamo avere tutto: nuove autostrade e impianti di risalita, rigassificatori e poli logistici. Le alluvioni ci dicono, invece, che quella è l’ingordigia di chi non vuole rinunciare a un modello che ha fatto dell’Emilia-Romagna una delle regioni più cementificate d’Italia. E invece, le priorità per le nostre vite, oggi, sono altre: desigillare il suolo e fermare il suo consumo; forestare i territori e le nostre città. La crisi climatica è un fenomeno sociale che acuisce le diseguaglianze esistenti e, attraverso ondate di caldo o alluvioni, ne crea delle altre: scegliere le priorità significa decidere da che parte stare.